In un ambiente abituato fin troppo spesso a raccontare ed elevare le storie di successo, trionfi e record, appare quasi strano – e sicuramente insolito – empatizzare con chi, quel successo, l’ha solo assaggiato. Per chi era sul trampolino di lancio ed è tornato indietro. In un mondo di “invincibili”, c’è chi si è dovuto arrendere di fronte a un ostacolo troppo alto e consapevolmente ha deciso di cambiare strada. È il caso di Chiara Scarabelli, che è stata una delle promesse più interessanti della pallavolo italiana, vincendo da capitano i Campionati Europei Under 20 del 2010 e i Mondiali Under 20 dell’anno successivo.
In quella squadra c’erano anche Caterina Bosetti, Letizia Camera, Valentina Diouf e Giulia Pisani, tutte giocatrici divenute poi protagoniste ai massimi livelli. Tuttavia, la storia della schiacciatrice piacentina classe 1993, attualmente in B1 all’Everest MioVolley Gossolengo, è andata diversamente, come ha raccontato ai microfoni di Volley NEWS.
Foto Facebook Chiara Scarabelli
Per cominciare, ci racconti chi è Chiara Scarabelli e cosa rappresenta per lei la pallavolo.
“Oggi Chiara è prima di tutto una psicologa, da poco iscritta all’albo dell’Emilia-Romagna. Lo dico con grande orgoglio perché è un risultato che ho ottenuto dopo tanti anni di studio. Proprio venerdì scorso ho concluso un master all’Università Cattolica di Milano riguardante la Psicologia dello Sport. Inoltre, lavoro a scuola come insegnante di sostegno e gioco nel MioVolley da ormai 10 anni. La pallavolo è sempre stata un elemento importante nella mia vita. Quando ero piccolina, rappresentava un puro divertimento ed era un’occasione di socialità: venivo sempre descritta come una bambina molto vivace e quindi il volley mi permetteva di incanalare la mia agitazione motoria. Al tempo stesso, però, sono sempre stata una bambina rispettosa delle regole, anche grazie allo sport.
Durante l’adolescenza, quando ho iniziato a muovere i primi passi sui campi di Serie A, la pallavolo rappresentava un’ipotesi di realizzazione della mia vita a cui ho creduto fortemente. È chiaro che, quando non si è potuta realizzare, la delusione è stata grande. In quei momenti c’era anche un po’ di rabbia nei confronti di questo sport. In realtà, poi ho capito che odiarlo non sarebbe servito a niente e così il volley è diventato una valvola di sfogo e un’occasione di ritornare a una vita sana, all’insegna dell’esercizio fisico e della socialità. Alla fine, raggiungendo diverse promozioni e arrivando a giocare in Serie B, l’impegno è cresciuto: così, ho avuto l’opportunità di tornare a vivere quelle emozioni avvincenti che avevo assaporato qualche anno prima“.
Quali sono state le prime tappe della sua carriera pallavolistica?
“All’inizio ero una bambina molto talentuosa. Ho iniziato a giocare nella squadra di San Nicolò, paese in provincia di Piacenza dove sono cresciuta. A un certo punto sono stata visionata da due allenatori, che mi hanno proposto di passare al Vigolzone. Si trattava di una società piccola che però vantava una squadra in Serie B2. L’anno dopo è stata addirittura promossa in B1; quindi – seppur giovanissima – ho avuto la fortuna di allenarmi con ragazze molto più grandi di me e ogni tanto essere convocata in prima squadra per completare la panchina. Successivamente ho cambiato squadra e ho scelto la Rebecchi Lupa Piacenza; l’allenatore era Enrico Mazzola, che poi ho ritrovato più tardi al MioVolley. Infine, sono andata a Rivergaro: un momento chiave del mio percorso perché ero chiamata a fare la differenza nelle categorie giovanili in cui militavo. Nel frattempo, arrivavano anche le convocazioni per le varie selezioni provinciali e regionali, con cui ho avuto il piacere di vincere un Trofeo delle Regioni. Tra le mie compagne di squadra c’erano Alessia Gennari, Elisa Lancellotti, Martina Balboni, Giulia Saguatti, giocatrici che hanno fatto parecchia strada“.
Poi le parentesi con Club Italia e Asystel Volley Novara. Cosa si porta dietro di queste esperienze?
“Dopo le scuole medie sono andata a giocare al Club Italia. Una decisione importante perché si trattava di lasciare casa a 13 anni, mollare la propria famiglia e gli amici, per aderire a un progetto che mi avrebbe messo a dura prova sia dal punto di vista fisico sia dal punto di vista psicologico. Lì ho iniziato a vedere la pallavolo come qualcosa che potesse farmi sentire realizzata nella mia vita. Successivamente è arrivata la chiamata di Novara, dove ho vissuto un’esperienza tosta ma allo stesso tempo formativa, grazie agli insegnamenti di Luciano Pedullà che mi ha aiutato a crescere in tutti i fondamentali. Complici alcuni infortuni di Paola Cardullo, ho fatto anche le mie prime presenze in Serie A e ho avuto la possibilità di giocare con grandi campionesse. In quella stessa annata ho vinto la medaglia di bronzo ai Campionati Europei Under 18. Poco dopo avrei dovuto prendere parte anche ai Mondiali, ma nel mese di aprile – proprio al rientro dalla rassegna continentale – ho subito un infortunio al ginocchio. Il primo dei tanti…“.
Quando la sua carriera sembrava tingersi dei colori giusti, è iniziato un terribile calvario. Le va di parlarcene?
“Dopo il primo infortunio, avevo deciso di restare a Novara con l’obiettivo di riprendermi dal punto di vista fisico. Solo che nel frattempo ci sono stati un po’ di stravolgimenti e difficoltà: erano cambiati allenatore e alcuni elementi della squadra, e soprattutto facevo fatica a recuperare. Quindi, il secondo anno all’Asystel è stato più negativo rispetto al primo. Tuttavia, sono riuscita a togliermi grandi soddisfazioni con la nazionale perché al termine della stagione ho partecipato agli Europei Under 20 grazie a un recupero lampo. In quell’occasione la fiducia di Marco Mencarelli e del suo staff nei miei confronti è stata decisiva: mi hanno aspettata e così ho potuto disputare gli Europei in Serbia da capitana e vincerli.
Dopo l’estate del riscatto, mi sono ritrovata a Piacenza in una squadra che puntava alla salvezza. Timidamente ero riuscita a guadagnarmi un ‘mezzo’ posto da titolare, nel senso che non partivo sempre nel sestetto, ma l’allenatore Mauro Chiappafreddo aveva grande fiducia in me. Peccato che poi non sono riuscita a concludere la stagione per un nuovo infortunio. Però, ancora una volta, è arrivata la nazionale a salvarmi. Mencarelli mi ha ripreso sotto la sua ala e mi ha permesso di prepararmi al meglio per i Mondiali Under 20. È stata l’ennesima corsa contro il tempo: avevo tantissima voglia di tornare in campo e vestire la maglia azzurra. Così, sono andata in Perù per la rassegna iridata, ma proprio sul più bello ho avuto l’ennesima ricaduta. Da qui è iniziato il calvario… Sono tornata a casa e mi è stato prospettato di fare due interventi al ginocchio a distanza di pochi mesi. Di conseguenza, nella stagione successiva – che coincideva con l’anno della maturità – sono rimasta completamente ferma“.
Cosa le hanno lasciato le esperienze e i successi con le nazionali giovanili di cui ha parlato?
“Al di là delle vittorie, che sono sempre piacevoli da ricordare e che resteranno per sempre, mi porto dietro ricordi molto belli. In primis, il colloquio con coach Mencarelli e il suo vice Bertini prima degli Europei Under 20. Era un momento difficile in cui stavo portando avanti il mio percorso riabilitativo e iniziando a fare qualcosa di più impegnativo dal punto di vista fisico, anche se non stavo ancora lavorando con la palla. Tuttavia, loro mi hanno detto apertamente che ero un punto di riferimento per la squadra sia tecnicamente sia all’interno dello spogliatoio, e proprio per questo motivo mi avrebbero aspettato fino alla fine del ritiro e nominato capitano del gruppo. Queste parole mi hanno dato tanta forza e ho capito di essere un esempio di impegno e dedizione per la squadra.
Un altro momento che porto nel cuore, anche se con un po’ di amaro in bocca, è legato alla prima partita del Mondiale Under 20, a cui non avevo potuto prendere parte: infatti, ero febbricitante nella stanza di un albergo di Lima in seguito a un’infezione al ginocchio. Però, dal letto avevo visto che le mie compagne si erano scritte sul braccio quello che all’epoca era il mio soprannome: ‘Diablo’. Insomma, volevano esprimere tutta la loro vicinanza e farmi capire che in quel momento stavano giocando anche per me, visto che avevo lavorato molto per arrivare fino a lì. Infine, ricordo sempre con piacere l’emozione di cantare l’inno con lo sguardo rivolto alla bandiera italiana“.
Riprendiamo la narrazione della sua storia. Quando ha deciso di riprendere a giocare nelle categorie inferiori?
“Dopo la stagione a Piacenza in cui sono rimasta ai box, sono passata all’Universal Volley Modena. Tuttavia, la società è fallita nel giro di pochi mesi: una situazione poco piacevole che mi ha fatto mettere da parte definitivamente il volley di Serie A. Così, sono tornata a casa, anche se la decisione non è stata compresa e condivisa fin da subito dalle persone che mi stavano vicino. Per me, invece, era la scelta migliore per il mio benessere non solo fisico ma anche psicologico. Nel frattempo, ho ripreso a studiare e ho iniziato ad allenare dando una mano alla ragazza che qualche anno prima mi aveva portato a Vigolzone: era un po’ come chiudere il cerchio.
Dopo i primi due anni da allenatrice, piano piano mi era tornata voglia di giocare perché avevo capito che nel bene o nel male la pallavolo era parte della mia vita. Così, ho deciso di ripartire proprio da lì, in una società dove mi sentivo a mio agio e in una categoria che non imponeva carichi eccessivi. In quel momento avevo vent’anni e il gruppo con cui lavoravo era un’Under 18, che disputava anche il campionato di Prima Divisione e lottava per la promozione in Serie D. Alla fine, è stato tutto molto naturale. Da lì in poi è stata una vera e propria cavalcata perché nel giro di tre anni siamo arrivati in Serie B2. È stato bello perché vedevo che salendo di categoria aumentava l’agonismo e così piano piano ho ritrovato un po’ di fiducia“.
Quali soddisfazioni ha raggiunto durante il suo percorso decennale con l’Everest MioVolley?
“Questi dieci anni all’Everest sono stati un’altalena di emozioni. Dal 2014 al 2017 siamo passati dalla Prima Divisione alla B2 con una straordinaria serie di promozioni. Dopo aver confermato la categoria, quando sembrava essere giunto il momento buono per il salto in B1, è arrivato il Covid. Alla fine, siamo riuscite a centrare la promozione per il numero di punti conquistati fino allo stop del campionato, ma sicuramente non aveva il valore di una promozione conquistata sul campo. Nelle due stagioni successive abbiamo giocato in B1, anche se poi abbiamo dovuto affrontare diverse difficoltà. Infatti, la società aveva cambiato proprietà e in quel momento non era in grado di sostenere una categoria di quel tipo. Così, alla fine, siamo retrocesse in B2.
Invece, la scorsa stagione è stata magica, visto che ci siamo riprese la B1 dominando il campionato e abbiamo vinto la Coppa Italia al Pala Dozza di Bologna. Dunque, è stato un percorso lungo e intenso. Le soddisfazioni più grandi dal punto di vista personale sono legate alla ritrovata fiducia e alla rinnovata passione per uno sport che mi aveva dato filo da torcere. Per quanto riguarda la società, c’è la soddisfazione di essere arrivate in Serie B1 partendo dalla Prima Divisione“.
Come sta andando la stagione 2023-2024? A distanza di diversi anni, il ginocchio le dà ancora noia?
“Quest’anno stiamo disputando un campionato di tutto rispetto perché attualmente siamo quarte nel nostro girone di B1. Dobbiamo ancora affrontare scontri diretti complicati, anche se partiamo dalla consapevolezza di aver ottenuto con ampio anticipo la salvezza aritmetica. Peccato solo per gli infortuni che hanno colpito alcune giocatrici del sestetto titolare, perché altrimenti avremmo potuto dire la nostra in ottica playoff. Fisicamente sono stata bene, ma devo dire che anche nelle scorse stagioni il ginocchio non mi ha mai dato grossi problemi. Ho solo avuto la necessità di fare un piccolo ‘intervento di restauro’ nel 2018, ma comunque era una cosa programmata al fine di gestire meglio i carichi di lavoro. Quest’anno ho avuto un piccolo problema al collo che mi ha fatto saltare qualche partita, ma si tratta di un normalissimo infortunio che può capitare nella carriera di un’atleta“.
Ripercorrendo il suo percorso pallavolistico non viene assalita da un certo senso di amarezza? Non ha qualche rimpianto per quello che poteva essere e non è stato?
“Anche se me lo chiedono in tanti, è una domanda che mi sono mai posta perché probabilmente mi avrebbe portato all’autodistruzione. Quando ho capito che non proseguire il percorso in Serie A era la cosa migliore per me, ho preso in mano la mia vita, le mie consapevolezze e i miei bisogni. L’ho fatto con tanta fatica perché inizialmente non era una decisione troppo condivisa dalle persone che mi stavano intorno. Però, penso che fosse la decisione giusta per il mio bene. Infatti, se avessi continuato – ammesso di riuscirci, perché reggere i ritmi della Serie A con la mia situazione fisica sarebbe stato complicato – non so se avrei guadagnato qualcosa in termini di salute.
Quindi, è stata una decisione sofferta ma necessaria, di cui ancora oggi vado molto fiera perché, a dispetto di una società che ci impone sempre di essere invincibili e indistruttibili, sapersi fermare e pensare a quello che ognuno di noi ha bisogno davvero è una risorsa importante. Insomma, non ce ne facciamo nulla delle vittorie in bacheca, se poi stiamo male e non ci sentiamo a nostro agio. Certo, ora sto conducendo una vita molto diversa da quella che mi sarei aspettata 15 anni fa, quando ero una ragazzina che si allenava tante ore al giorno facendo rinunce e sacrifici. Però, è una vita che ho desiderato e che mi ha portato comunque a togliermi grandi soddisfazioni e ad acquisire le mie consapevolezze“.
Quali sono i suoi sogni, obiettivi e progetti per il futuro, dentro e fuori dal campo?
“È un periodo di grandi riflessioni per me e il tempismo della domanda è perfetto. Per quanto riguarda la pallavolo, credo di aver già detto la mia a sufficienza. Perciò, dopo questa stagione penso di poter serenamente dire ‘basta’ con il volley giocato e lasciare spazio a chi è più giovane e più sana fisicamente di me. Sono convinta della mia scelta. Ovviamente poi vorrei iniziare a esercitare da psicologa, magari rimanendo in ambito sportivo.
Come sogno, mi piacerebbe entrare stabilmente in uno staff come Psicologa dello Sport con l’obiettivo di favorire il benessere psicologico di ragazzi che si trovano a competere ad alti livelli e che a volte non hanno gli strumenti necessari per superare certi ostacoli. Da un lato sarebbe la dimostrazione che il mio percorso formativo mi ha permesso di rientrare nel mondo dello sport sotto altre vesti; dall’altro vorrebbe dire che c’è una nuova sensibilità rispetto a una figura professionale come la mia. Per esempio, ai tempi dei miei infortuni non c’era o comunque non era parte integrante dello staff. Forse è stato anche questo il motivo per cui ho deciso di intraprendere un percorso del genere“.
di Alessandro Garotta LEGGI TUTTO