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    “Ciao Paso, ci hai incantati con l’esempio”: il messaggio della Pallavolo Padova

    Di Redazione Nel giorno in cui la Kioene Arena ha accolto i funerali di Michele Pasinato, la Pallavolo Padova ha voluto dedicare un commosso ricordo al grande campione che ha segnato la storia della società, prima da giocatore e poi da allenatore. Ecco il testo completo: “Ora, se un alieno giungesse su questo mondo e mi dicesse ‘descrivimi il pianeta terra’, sarebbe difficile farlo in poche parole. Probabilmente, dopo averci pensato un po’ e dopo avergli spiegato cosa esse siano, direi che questo mondo è un campo di cicale. Immagina una sera d’estate, di quelle che tolgono il respiro. Un terreno buio e un suono costante: ‘cri, cri, cri, cri, cri’. Un canto perpetuo, una gara a chi sbatte le ali più forte degli altri. A tutti noi è capitato di sentirlo e a tutti noi è capitato di fare un rumore forte, improvviso. Così forte da interrompere, anche se per pochi secondi, quell’infinita litania a cui le nostre orecchie ormai si erano abituate. E allora cala il silenzio.Come adesso.Lo senti?È un silenzio assordante, caro Paso. Attorno a te le cicale si sono fermate. È vero, fra poco torneremo a muovere i nostri arti, a scavalcare la tristezza cercando di ritrovare il sorriso parlando con un amico, abbracciando le persone che amiamo o, più semplicemente, accendendo la radio affinché il frastuono del quotidiano possa aiutarci a superare questi minuti di raccoglimento.Adesso, però, siamo stati qui ad ascoltare questa profonda assenza di note. E non è un caso.Perché probabilmente, anzi, sicuramente, una cosa la hai insegnata a tutti noi: che per lasciare il segno non servono tante parole, non serve chiedere ad un regista d’essere per forza illuminati da un occhio di bue per divenire protagonisti del palco della vita.Servono le azioni.Tu, caro Paso, di azioni ne hai fatte davvero tante. A partire dal campo. Non quello coperto d’erba, ma quello accarezzato da un taraflex. Oltre 7 mila azioni vincenti. Quelle che ti pongono sul podio dei punti realizzati. Quelle giovani cicale che oggi sono state qui, a partecipare al nostro silenzio, le tue azioni di gioco non le hanno viste. Le hanno solo percepite. Forse solo adesso esse si rendono conto di cosa tu sia stato per questo sport. Una disciplina, quella a cui hai dedicato la tua esistenza, che da sempre ama crogiolarsi nel motto ‘la pallavolo è differente’.Ebbene no. Non siamo diversi dal resto del mondo. Perché ora anche noi siamo muti, impotenti.Tolti i panni dell’atleta, avresti potuto godere di ciò che avevi raggiunto. Ma non l’hai fatto. Ti sei rimesso in gioco, nella vita di tutti i giorni, dimostrandoci che non serve necessariamente l’Inno di Mameli per affrontare nuove sfide. Forse meno clamorose, ma altrettanto stimolanti.Ancora una volta ci hai dimostrato che si può vincere senza osannarsi, perché non è quello che conta. Quindi, all’alieno che nella fantasia mi chiede cosa sia il pianeta terra, voglio dire con orgoglio che questo mondo è sì pieno di cicale, ma ancora cosciente di comprendere che può essere zittito dalla testimonianza di un uomo che ha saputo incantarci con l’esempio.Ciao Paso“. (fonte: Comunicato stampa) LEGGI TUTTO

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    Commozione alla Kioene Arena per l’ultimo saluto a Michele Pasinato

    Di Redazione Un lungo applauso ha salutato “Paso” nella sua Kioene Arena. Si è svolto questo pomeriggio il funerale di Michele Pasinato, ex giocatore di Padova e della nazionale italiana, nonché allenatore del settore giovanile bianconero. Difficile descrivere a parole la grande emozione che in ogni istante ha coinvolto i tanti presenti: familliari, colleghi, amici e autorità. E poi tutti i grandi campioni della Generazione di Fenomeni che lo hanno accompagnato nella sua avventura azzurra: Zorzi, Cantagalli, Lucchetta, Tofoli, Bernardi, Gardini, Gravina, Giani e Papi, guidati ancora una volta da Julio Velasco. Alla cerimonia ha partecipato anche l’assessore allo Sport del Comune di Padova Diego Bonavina, che nel suo commosso saluto ha promesso di intitolare il palazzetto proprio alla memoria del Paso. Con lui anche il presidente di Lega Pallavolo Massimo Righi, il vicepresidente Fipav Adriano Bilato e i presidenti dei comitati Fipav del Veneto e di Padova. Tante persone si sono strette attorno alla moglie Silvia e ai figli Edoardo e Giorgio, compresi gli altri allenatori bianconeri e quei giovani ragazzi che erano da lui allenati e che hanno avuto la fortuna di poter imparare molto da Paso. “Abbiamo deciso di riunirci qui per celebrarti in quella che era la tua casa” ha detto Edoardo nel suo toccante messaggio. A celebrare la funzione c’erano don Gianluca della parrocchia di Voltabarozzo, don Celestino, don Piero e don Luca Gottardo, ex giocatore della serie A1 bianconera (e fratello di Mattia). Il rito funebre è stato trasmesso in diretta televisiva e streaming grazie a Tv7 Triveneta, dando così la possibilità a chiunque di poter essere vicino col cuore alla famiglia di Pasinato, anche se fisicamente impossibilitato ad essere presente. Michele Pasinato sarà sepolto nel cimitero vecchio di Voltabarozzo. (fonte: Comunicato stampa) LEGGI TUTTO

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    Il saluto dei grandi a Pasinato: “Ti porteremo sempre nel cuore”

    Di Redazione La terribile notizia della scomparsa di Michele Pasinato ha scosso il mondo della pallavolo: centinaia le testimonianze e i ricordi pubblicati sui social network da giocatori, allenatori, addetti ai lavori e semplici appassionati. I più colpiti sono naturalmente gli ex compagni di squadra della Generazione di Fenomeni, che già avevano vissuto il prematuro addio a un altro grande campione di quel gruppo, il compianto Vigor Bovolenta. Tantissimi gli azzurri che hanno voluto pubblicare un messaggio, un breve ricordo o una semplice foto dell’amico e compagno di squadra: “Ti voglio ricordare così! Tutte le altre parole non servono a nulla. La vita in certi momenti è veramente crudele” scrive Lorenzo Bernardi accanto all’immagine di Pasinato con la maglia della nazionale. Paolo Tofoli pubblica la sua foto in compagnia di Michele sul podio dei Mondiali 1998 a Tokyo: “Ti porterò sempre nel mio cuore“. Intimo e affettuoso il saluto di Ferdinando De Giorgi: “Ciao, adorabile ‘Sgrunk’“. E l’immagine di un giovanissimo Samuele Papi al fianco del ‘Paso’ è accompagnato dalle parole “Ciao amico mio, mi mancherai tanto“. Anche Andrea Giani e Andrea Sartoretti, attuali allenatore e direttore generale di Modena Volley, hanno dedicato un messaggio all’amico: “Provo un enorme dolore – scrive Giani – con Michele sono cresciuto, siamo partiti dalla Pre Juniores, sempre insieme, dal 1985. È veramente una notizia che mi stringe il cuore, Michele è un ragazzo con cui ho vissuto tanti, tantissimi anni della mia vita e l’unica cosa che posso fare ora è rivolgere un pensiero alla famiglia, a sua moglie e ai suoi figli. Mi dispiace davvero tantissimo, era un ragazzo straordinario, fa molto molto male“. “Quella di oggi è una giornata molto triste – aggiunge Sartoretti – ci lascia un grande campione, esempio di tenacia e volontà. Ho avuto il piacere di giocare in nazionale insieme a lui ed apprezzare le sue qualità di giocatore e di uomo, il dispiacere è grande, grandissimo per i suoi familiari e per chi, come me, gli voleva bene“. (fonte: Instagram, Comunicato stampa) LEGGI TUTTO

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    Addio ad Andrea Nannini, colonna di Modena e della nazionale

    Foto Hall of Fame Federvolley

    Di Redazione
    La pallavolo italiana piange la scomparsa di Andrea Nannini, grande campione del passato che ha militato in Serie A per 16 stagioni e con la maglia della nazionale ha vinto la medaglia d’oro alle Universiadi 1970. Nannini ha partecipato a due edizioni dei Campionati Mondiali (Mosca 1962 e Bulgaria 1970) e tre dei Campionati Europei (Bucarest 1963, Milano 1971 e Skopije-Belgrado 1975) ed era stato inserito nella Hall of Fame Fipav. La sua carriera di club è indissolubilmente legata alla Panini Modena, la squadra della sua città, con cui ha vinto tre scudetti.
    Nato a Modena nel dicembre 1944, Nannini aveva iniziato la sua carriera in Serie A nella Minelli per poi trasferirsi nel 1965 a Firenze, restandovi fino al 1968, anno del suo primo scudetto. Tornato a Modena con la Panini, ha conquistato altri tre titoli nazionali (1970, 1972 e 1974), prima di passare alla Klippan Torino e al Gonzaga Milano. In azzurro ha esordito nel 1962, contro la Polonia a Lucca, collezionando 193 presenze. Il suo ruolo era quello di universale: giocava schiacciatore, ma anche centrale, in un volley dai ruoli non così definiti come oggi.
    Negli anni Ottanta e Novanta è stato poi allenatore, anche in Serie A1 a Milano, Santa Croce, Mantova e nella sua Modena (nelle stagioni dal 1983 al 1985), dove aveva vinto due Coppe CEV e una Coppa Italia. Negli ultimi anni, fino al 2016, era stato responsabile del settore giovanile di Modena.
    La redazione di Volley NEWS si unisce alle condoglianze della Federazione Italiana Pallavolo e della Lega Pallavolo Serie A ed è vicina nel dolore a familiari e amici.
    (fonte: Comunicato stampa) LEGGI TUTTO

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    Cacciatori: “Non riesco a immaginare i nostri atleti senza il tricolore alle Olimpiadi”

    Di Redazione
    Mancano davvero poche ore per emanare il decreto legge che sancisca l’autonomia del Coni o ai Giochi di Tokyo l’Italia andrà senza inno, senza bandiere e senza squadre. Il Cio si riunirà domani, mercoledì 27 gennaio, e se non si arrivasse ad una quadra, potrebbero scattare le sanzioni contro l’Italia, per aver violato le regole contenute nella Carta Olimpica, il documento che determina principi e statuti del movimento olimpico. 
    A parlare di questa situazione che ha dell’incredulo, anche Maurizia Cacciatori icona della pallavolo italiana che fece parte della spedizione azzurra alle Olimpiadi di Sydney del 2000, nell’intervista rilasciata a Tuttusport.
    Cacciatori, che esperienza fu portare l’Italia alle Olimpiadi? «Fu un risultato storico. Esserci riuscite ha donato a tutte noi mesi di emozioni. Abbiamo vissuto quel periodo con la consapevolezza che saremmo andate ai Giochi, con la maglia azzurra, con l’inno e il tricolore da sventolare. Le Olimpiadi sono per ogni atleta un momento di crescita personale fortissima e una responsabilità non indifferente. Ricordo Angelo Frigoni che ci preparava all’evento raccontandoci che l’Olimpiade ha sapori e profumi differenti da tutte le altre competizioni. E per noi è stato davvero così. Quando è partita la spedizione olimpica, eravamo tutti insieme. Avevamo la divisa, eravamo un gruppo chiamato a rappresentare il Paese e lo avvertivamo profondamente».
    C’è il rischio che tutte queste cose vengano a mancare a Tokyo. Che effetto fa? «Io spero che non succeda perché mi sembra una cosa impensabile. Immaginare gli atleti italiani senza maglia azzurra e senza inno mi rende incredula. Fin da piccola guardavo in televisione la cerimonia d’apertura e aspettavo con ansia il momento in cui lo speaker avrebbe annunciato l’ingresso dell’Italia. Non riesco a immaginare i nostri atleti senza il tricolore quasi fossero “turisti per caso”».
    Come si sentono ora le nostre atlete? «Si sentono sospese perché c’è anche il rischio che le Olimpiadi non si facciano. Io invece me le immagino come le Olimpiadi più belle e importanti perché possono dare un segnale di ripartenza. Ed è per questo che mi fa più rabbia pensare che l’Italia ci potrebbe arrivare senza la maglia azzurra e il tricolore. Credo che il senso di appartenenza debba essere più forte di tutto e mi auguro che all’ultimo momento arrivi un segnale forte, che sblocchi la questione. Serve un segnale per far capire che il Paese è vicino ai suoi atleti, che sono i nostri giovani, il nostro futuro. Il mio è un appello per tutto il Paese». LEGGI TUTTO

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    Juantorena: “Alle Olimpiadi quattro rivali più forti, ma lotteremo per le medaglie”

    Di Redazione
    A pochi giorni dalla classica sfida con lo Zenit Kazan, in programma sabato 23 gennaio, l’ufficio stampa dello Zenit San Pietroburgo ha pensato bene di intervistare un acerrimo nemico della squadra di Alekno come Osmany Juantorena. Lo schiacciatore della Cucine Lube Civitanova e della nazionale italiana, però, si è dimostrato molto cauto nel parlare della crisi di Ngapeth e compagni: “Non posso commentare quello che sta succedendo, perché non so quali problemi stanno vivendo i giocatori e gli allenatori. Sono sicuro che lo Zenit saprà superare questa crisi e arrivare ai play off più in forma, hanno grandi giocatori e veri campioni“.
    Più interessanti, almeno per un pubblico italiano, le considerazioni di Juantorena sulle Olimpiadi di Tokyo: “Senza dubbio l’Italia sarà tra i favoriti – ha detto Osmany – cercheremo di arrivare in finale, o almeno per le medaglie. Penso che Polonia, Russia, USA e Brasile abbiano roster molto più forti della nostra squadra, ma questo non vuol dire nulla: a Rio non eravamo favoriti eppure abbiamo portato a casa l’argento. Ci saranno molte squadre più o meno allo stesso livello a Tokyo, ma metterei senz’altro la Russia tra le prime tre“.
    (fonte: vczenit-spb.ru) LEGGI TUTTO

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    Emanuele Birarelli, una carriera da “rompiscatole”: “Spero di essere stato un esempio”

    Di Paolo Cozzi
    Per il grande pubblico è stato per molti anni il capitano della nazionale, per i tifosi di Trento uno dei gladiatori che hanno a lungo dominato in Italia, Europa e nel mondo, per i più appassionati è l’atleta che con una serie di battute float incredibili ha regalato all’Italia la qualificazione a Pechino 2008 in un match ormai perso contro il Giappone. Ma per tutti Emanuele Birarelli è semplicemente il Bira, centrale moderno, anticipatissimo in attacco e con un “fiuto” infallibile a muro.
    All’alba dei 39 anni, dopo due stagioni a Verona in cui è riuscito ancora una volta a regalare giocate importanti, ha deciso di appendere le scarpe al chiodo e allontanarsi da quel taraflex dove ha versato tanto sudore per arrivare al vertice del volley mondiale. Ma per fortuna ha deciso di rimanere nel nostro Mondo, entrando nella scuderia del noto procuratore sportivo Luca Novi, non più come atleta, ma come agente. Con lui abbiamo fatto una bella chiacchierata, ricca di spunti interessanti, partendo da ciò che ha rappresentato Emanuele Birarelli nel mondo del volley.
    È stato capitano sia in Nazionale che in club, un grande onore immagino! Cosa vuol dire veramente ottenere questo riconoscimento?
    “Innanzitutto, tra tante cose che mi sono capitate in carriera, essere capitano è quella che mi ha reso più orgoglioso. Al di là dei trofei, delle vittorie, delle coppe sollevate, essere riconosciuto come una persona che poteva rappresentare un gruppo di giocatori molto forti è stato qualcosa di molto grande. Soprattutto per me, che mi sono sempre sempre sentito uno che veniva dal basso: complice anche un infortunio, sono arrivato tardi nel volley di serie A e ho dovuto sudare per arrivare al vertice.
    Sicuramente ‘orgoglio’ è la parola più calzante, dopodiché mi viene in mente anche il termine ‘responsabilità’, che l’essere capitano si porta dietro. In tutta la mia carriera ho sempre provato a trascinare i compagni con l’esempio, ma non sempre è sufficiente, perché ogni tanto servono anche le parole! Ho giocato con tanti atleti, diversi fra loro sia caratterialmente che come modo di intendere la vita: mi auguro che abbiano visto in me un modello positivo, che abbiano portato a casa qualcosa di quello che cercavo di trasmettere loro“.
    Di solito il capitano può essere scelto dalla società perché ben rappresenta i suoi valori,oppure dall’allenatore che ne individua le potenzialità come leader. Altre volte è la squadra stessa che “elegge” un giocatore a guida morale dello spogliatoio. La sensazione è che lei racchiudesse un po’ tutti questi aspetti in un’unica figura.
    “Non avevo mai riflettuto su questi tre aspetti, ma mi ci ritrovo molto! Sicuramente in nazionale, come è ovvio che sia, un pochino l’anzianità conta, a maggior ragione rispetto a un club, dove si guarda magari più alla storia di un giocatore all’interno della società, e rispetto alla scelta di un allenatore che ad inizio anno deve scegliere una guida per il gruppo.
    In nazionale sono entrato nel 2008 e sono passate 5-6 stagioni prima di arrivare ad avere l’esperienza per fare il capitano. È stata un’enorme soddisfazione, ma anche una grande responsabilità. Se penso alla squadra di Rio 2016, quella che forse è entrata di più nell’immaginario collettivo, era una formazione zeppa di campioni e io mi sentivo il punto di unione fra la vecchia e la nuova generazione. Soprattutto, tanti dei nuovi li avevo visti crescere e per loro ero come un fratello maggiore, un punto fermo cui appoggiarsi in caso di bisogno“.
    Visto da fuori, da avversario, ha sempre dato la sensazione di essere un leader silenzioso, una figura capace di farsi capire senza dover imporsi a forza, anche se immagino che siano capitate situazioni in cui ha dovuto “alzare la voce”.
    “Sì, io sono stato sempre molto esigente verso me stesso, e questo mi portava a esserlo anche nelle situazioni di squadra in allenamento. Visto in maniera superficiale potevo sembrare un rompiscatole, però credo fortemente che in mezzo al gruppo ci sia bisogno di qualcuno che faccia capire quali sono le situazioni tecniche e tattiche accettabili e quelle non accettabili, perché altrimenti il livello scende troppo. Non è mai facile trovare il bilanciamento giusto fra i due aspetti, inoltre c’è già un allenatore che si occupa di questo; però se si vuole lavorare ad alto livello bisogna essere molto esigenti con se stessi, e il fatto che io lo fossi nei miei confronti, che non tollerassi di commettere errori banali, mi aiutava nell’essere da esempio per gli altri“.
    Questa frase secondo me racchiude tutto lo spessore di Birarelli atleta, e andrebbe appesa in tutti gli spogliatoi d’Italia. Se si vuole puntare in alto bisogna pretendere da se stessi e dare l’esempio ai compagni! Lei si è chiamato rompiscatole, altri usano il termine “cane da allenamento”, cioè quella figura capace di imporsi sui compagni quando la squadra abbassa la concentrazione in allenamento… è un po’ una figura che si sta purtroppo perdendo oggigiorno?
    “È così, purtroppo, ed è il motivo per cui non è cosi facile costruire una squadra vincente. C’è la necessità di avere un mix di esperienza e giovani, ma serve soprattutto una figura che riesca a capire quando il gruppo non sta dando il massimo e lo riporti sulla via dell’attenzione. Forse questa figura si è un po persa perché qualche ragazzo della nuova generazione, anche se non mi piace generalizzare, è un po’ permaloso e accetta meno certi confronti, ma quando si fanno queste cose non si va mai sul personale, si pensa sempre al bene della squadra.
    Credo che il punto vero sia costruire un rapporto di fiducia alla base, investire del tempo per creare una conoscenza reciproca, e dentro questo rapporto imparare a tirare la corda e lasciarla in base alle esigenze. Solo cosi si potrà rendersi utili e non essere visti come una figura esterna che ti rompe le scatole e basta. Per questo ho sempre cercato di essere in connessione con i miei compagni, per essere sicuro che capissero la parte positiva e propositiva dei miei interventi. Io poi ho sempre provato ad usare due ‘file’ diversi in allenamento e in partita, perché devo dire che in partita è meglio lasciar correre sulle cose e non destabilizzare, mentre in allenamento si hanno molti più margini per confrontarsi“.
    Foto CEV
    Lei è stato un centrale molto completo, maledettamente fastidioso con la battuta float, costante, solido e preciso a muro, anticipatissimo in attacco. Ma per il mondo del volley è soprattutto l’uomo del miracolo in battuta al torneo di qualificazione olimpica di Tokyo 2008…
    “Questa nomea sulla battuta, grazie anche all’episodio di Tokyo, mi ha sempre accompagnato, ne ho sempre fatto un punto di forza e ho cercato sempre di farmi valere. Quasi tutti i centrali top del panorama mondiale hanno una battuta al salto molto aggressiva, quindi ho dovuto sudare e lavorare parecchio per rendere il mio servizio estremamente competitivo. Per molti sono stato considerato un muratore piuttosto che un attaccante, ma in realtà grazie al mio anticipo ho sempre viaggiato su percentuali alte in attacco (spesso e volentieri ben oltre il 60%, n.d.r.), anche se poi forse mi è mancato attaccare palloni staccati e la tesa, ma erano giocate che si addicevano poco alle mie caratteristiche. A muro ho sempre lavorato tanto per la lettura del gioco, e non essendo un gran saltatore ho sempre dovuto conquistare i muri con la tecnica e la tattica, con la testa.
    Tornando a quella serie di battute, sono molto legato a quel match, che era uno dei miei primi in nazionale, perché feci molto bene anche in attacco e muro, per cui lo ricordo sempre con un sorriso. Se posso, aggiungo che quella serie fu molto importante, però ho un’altra serie sempre al servizio di cui sono molto fiero, che ricordo come un momento importante anche se poi le luci dei riflettori si sono posati su altri gesti tecnici (gli ace di Zaytsev e il muro finale di Buti), ed è la semifinale contro gli USA a Rio 2016. Abbiamo perso due set in maniera secca, ma il primo dei set vinti l’abbiamo portato a casa ai vantaggi grazie a due miei ace consecutivi, che reputo ancora più chiave di quelli contro il Giappone“.
    È stata una sua caratteristica innata quella di osare con la float anche dopo il 20 o ha avuto degli allenatori che l’hanno spinta ad essere sempre molto aggressivo? Di solito, nei finali di set, i battitori float tendono ad essere un po più conservativi rispetto a chi batte al salto.
    “In realtà ho avuto tanti allenatori che nei momenti caldi mi chiedevano di limitare il numero di errori ed il rischio. Diciamo che ho sempre pensato a migliorare tecnicamente, perché secondo me tanto passa da lì. Non è solo una questione di testa saper gestire la battuta dopo il 20, ma ci vuole anche una solida certezza tecnica alle spalle. Se hai la coscienza della tecnica che ti supporta, allora puoi provare a superare scogli difficili, come una battuta sul 24 pari in una semifinale olimpica! Mi sono cercato spesso degli spazi in allenamento per provare a fare uno step in più,passando per un periodo fatto anche da tanti errori, ma per approdare ad una consapevolezza e ad una crescita tecnica importante“.
    Foto FIVB
    A sentirla parlare cosi mi viene da pensare che ha tutte le carte in regola per fare l’allenatore, invece ha scelto un percorso diverso. Ce lo vuole raccontare?
    “Credo che sia normale per atleti di alto livello avere un approccio preciso e meticoloso al lavoro in palestra, però in questa fase della mia vita, dopo tante esperienze lavorative in giro, cercavo una situazione più stabile rispetto alla vita dell’allenatore, che comporta anche tanti compromessi con la vita familiare. Così è nata l’idea di appoggiarmi alla scuderia di Luca Novi e dargli una mano nella veste di procuratore“.
    Come ha vissuto da atleta il rapporto con il suo procuratore, e quali aspetti saranno i cardini in questa sua nuova esperienza?
    “È un mestiere molto complesso, fatto da tante sfaccettature. Ovviamente non ho l’idea del procuratore come una figura che ti vende ad una società, ti fa fare un contratto e poi sparisce, ma lo interpreto come una persona con cui ci si può confrontare, come una persona di fiducia, che ti può supportare nelle decisioni, nella crescita e che ti affianca non solo negli aspetti economici e contrattuali. È una figura che secondo me è parte integrante del percorso di ogni atleta, per questo penso che la scelta del procuratore e il rapporto con l’atleta sia fondamentale.
    La scelta è e deve essere sempre fatta dal giocatore, ma il procuratore deve offrire valutazioni diverse in base al tipo di giocatore che gestisce. A volte si privilegiano aspetti economici, altre scelte tecniche, altre ancora soluzioni che potrebbero valorizzare un atleta: il procuratore deve essere bravo a capire cosa vuole il suo assistito e dargli una mano ad inseguire le sue ambizioni. L’aspetto economico è sicuramente in primissimo piano, ma soprattutto con i più giovani spero che ci sarà la voglia di confrontarsi e prendere decisioni anche in base ad altri aspetti più utili per la loro crescita individuale“.
    Da ormai ex centrale, per un giovane è meglio far panchina in serie A o giocare a una categoria inferiore?
    “Penso che per un atleta, soprattutto un giovane, sia molto importante scegliere l’allenatore giusto, anche se magari l’offerta economica di quella società è un pelo al di sotto di altre. Anche la scelta della società è determinante nel percorso di crescita di un atleta. Personalmente da centrale sono convinto che andare ad assaggiare un livello alto e vedere la velocità della palla, le altezze che si toccano, la velocità di gioco possa essere molto formativo, perché ti aiuta a capire dove è posizionata l’asticella che si vuole raggiungere. Ovviamente si parla di fare un anno, al massimo due in panchina, perché poi l’esperienza sul campo diventa fondamentale per dimostrare quello che si sa fare“.
    Ultima domanda: come prima esperienza, meglio fare il procuratore di un top player, con tutte le “problematiche” che si possono incontrare, o scoprire un giovane talento e accompagnarlo verso l’Olimpo del volley?
    “Credo che siano due situazioni veramente agli antipodi: il lavoro è lo stesso ma cambia totalmente il modo di approcciare. Essendo agli inizi di questa nuova esperienza, mi piace pensare di dover fare un po’ di gavetta e quindi mi piacerebbe in questa fase collaborare con qualche giovane che sta venendo fuori e accompagnarlo nel suo percorso: ho la fortuna di collaborare con una agenzia importante e quindi spero di arrivare presto ad interagire anche con i big, ma questo lo vedremo strada facendo!“.
    E la sensazione è che anche in questa avventura il Bira nazionale porterà la sua grande professionalità e la sua voglia di lavorare day by day per crescere insieme ai suoi assistiti!
    (fonte: Comunicato stampa) LEGGI TUTTO