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    Cobolli, “calma e gesso”

    Flavio Cobolli (foto Patrick Boren)

    “Il secondo album è sempre il più difficile, nella carriera di un artista”. L’arguto verso del cantautore Caparezza è perfetto per descrivere le difficoltà che si possono trovare in tanti ambiti dell’umana esperienza, sport e tennis inclusi, quando siamo chiamati a confermare un qualcosa di eccellente. La novità, l’impeto della creazione o della performance porta esaltazione, il vivere in uno stato flow positivo che ti spinge a superare ostacoli e te stesso. Inoltre nel tennis conta molto il fattore novità e pure il non difendere altri grandi risultati a livello di classifica, correndo bello spedito verso l’alto. Poi arriva la seconda annata al massimo livello, e tutto si fa dannatamente difficile. L’effetto sorpresa non c’è più e gli avversari sanno come affrontarti, mentre allo stesso tempo fa capolino la pressione di dover confermare risultati e difendere punti pesanti, cercare di riaffermare il grande livello dell’anno precedente, insieme alla necessità di cambiare qualcosa per alzare ulteriormente il proprio gioco e così continuare a vincere. La situazione si fa ancor più complessa quando uno dei tuoi principali punti di forza non funziona, non c’è, non è al livello dell’anno precedente. Questo preambolo è utile per inquadrare la situazione tutt’altro che positiva di Flavio Cobolli, nostro eccellente giocatore in crisi di risultati dall’inizio della nuova stagione. Un’annata iniziata male, figlia di problemi arrivati sul finire 2024 che non gli hanno consentito di presentarsi al meglio nei primi tornei stagionali. Nei commenti post partita o in troppi scomposti post social a Cobolli vengono associate parole senza senso come “sopravvalutato” o addirittura “finito”. Beata ignoranza… o forse terrificante ignoranza nel senso pieno del termine.
    È vero che Cobolli per risultati sta deludendo su tutta la linea. I numeri parlano chiaro: -10 in classifica dal proprio best di n.30 (staccato il 30 settembre 2024), con un bilancio di 2 vittorie e 7 sconfitte nel 2025; quei due successi inoltre sono arrivati giusto nei primi due match dell’anno, in United Cup (contro Sticker e Humbert), poi sette sconfitte di fila, sei al primo turno di altrettanti tornei disputati. Ad Auckland si è ritirato vs. Nardi, presentandosi tutt’altro che al meglio a Melbourne, battuto da Etcheverry. Quindi out all’esordio a Montpellier, Rotterdam (vs. Hurkacz), Acapulco (vs. Shelton) e Indian Wells, sconfitto da Colton Smith in una partita strana, non ben giocata per colpa di uno stato influenzale che si è trascinato dai giorni scorsi. Numeri orribili, ma… i numeri vanno saputi leggere, e soprattutto interpretare. Che senso ha “sparare” su Flavio senza conoscere il suo momento e la sua condizione, assai carente rispetto all’anno scorso? Il problema di Cobolli infatti è al momento solo e soltanto uno: la condizione generale, in primis atletica.
    Può essere un esercizio utilissimo – per chi è in grado di farlo, magari recuperando un po’ dagli archivi di TennisTv – andarsi a rivedere qualche match o almeno parte di match di Flavio dello scorso anno per capire che cosa sta succedendo e perché stia attraversando quest’emorragia di risultati. La parola che meglio si associa al tennis del romano è Energia. Il suo tennis rapido e offensivo si basa sulla condizione, su quella forza fisica e continuità di spinta che l’ha portato a produrre decine di prestazioni favolose, con colpi intensi, incisivi, vincenti. Caviglie, gambe, spalla… Flavio quando sta bene è un vero “toro” sportivo per come corre, salta, spinge, sprinta e scarica tonnellate di energia sulla palla, producendo forcing che stroncano la resistenza dei rivali. Energia per attaccare; forza fisica per rincorrere e passare da difesa ad attacco, improvvise pallate di rovescio e bordate a tutta di diritto che diventano dardi al veleno per i rivali. Sentirsi bene per Cobolli è decisivo, perché tutto funziona quando il suo corpo reagisce ed esplode la dinamicità e potenza necessaria a gestire i colpi. Senza una buona condizione, anche la fiducia scema e l’architettura del suo gioco traballa, fino a collassare. Questo vale per moltissimi giocatori, ma ancor più per Flavio che ha un tennis davvero fondato sulla energia e sull’intensità.
    Cobolli purtroppo non sta trovando risultati banalmente perché non sta bene. Da mesi. Ricordiamo che ha finito il 2024 infortunato, un problema alla spalla e al braccio arrivato proprio nelle ultime settimane di calendario. Un infortunio che non ci voleva, in assoluto ma in particolare in quel preciso momento perché quelle settimane sono oro per il riposo e la preparazione. Flavio è stato costretto a passare quel periodo non a rigenerare testa e fisico per prepararsi a puntino per la trasferta australiana e mettere fieno in cascina per la prima parte del 2025, ma a curarsi. E qualche cosa si è trascinato purtroppo all’avvio dei primi tornei “down under”. Il ritiro contro Nardi, un nuovo momento di stop per qualcosa che non era a posto e ha provocato altri grattacapi. Quindi la difficoltà di ritrovare condizione per una preparazione non andata secondo i piani. E ci si mette pure l’influenza a complicare un momento non facile. Piove sul bagnato… chiara dimostrazione delle “leggi di Murphy”, che la fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo… È possibile che siano stati anche commessi degli errori, come è normale che accada nella gestione di un sport difficile come il tennis, dove si cerca di fare un programma al meglio possibile ma poi gli eventi cambiano le carte in tavola e rimettere tutto al posto non è per niente facile.
    Cosa fare adesso, come invertire la tendenza? Intanto “Calma e Gesso”, mediando dal gergo del biliardo. Quelle traiettorie geometriche in progressione e il senso degli angoli e per il ritmo di Cobolli possono tranquillamente essere ritrovati e tornare a pungere gli avversari insistendo banalmente sul lavoro. Aspettando che il corpo si rimetta a regime e sostenga come nel 2024 la prestazione del nostro tennista. Il pericolo più grave è sul lato mentale: accumulare sconfitte e memorie negative potrebbe essere un problema, rischia di minare quella scioltezza di braccio e lucidità nelle scelte che è condizione necessaria ad eccellere. In tante splendide partite della scorsa stagione Cobolli si è preso grandi rischi e ha trovato punti eccellenti forte di fisico e di una convinzione che l’ha portato a giocare sciolto, deciso. Trattenere il braccio e giocare incerto non sono nel suo DNA, quindi dovrà cercare di restare sereno e non farsi condizionare da questi mesi di cattive prestazioni. Non è operazione comoda, ancor più per un ragazzo giovane con alle spalle solo una ottima stagione. Del resto, “il secondo album è sempre il più difficile”, ma nella difficoltà spesso nascono opportunità. Forza “Cobbo”!
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    Addio a Fred Stolle, leggenda del tennis australiano

    Fred Stolle con la coppa di Roland Garros, insieme a Tony Roche (foto ATP site)

    Il tennis australiano e internazionale piange la scomparsa di Fred Stolle, uno dei giocatori che resero il tennis “Green and Gold” leggendario a cavallo tra anni ’60 e ’70 insieme ai connazionali Laver, Rosewall, Newcombe, Roche, Emerson e via dicendo. Aveva 86 anni. In carriera vinse due titoli dello Slam in singolare (Roland Garros e US Open) e ben 17 titoli in doppio, che lo resero forse il più forte in assoluto nella specialità nella sua epoca, nella quale tutti i migliori (o quasi) partecipavano anche in doppio nei tornei dello Slam e maggiori eventi del tour. È entrato nella storia dei giocatori capaci di raggiungere la finale in tutti gli Slam, perdendone ben sei e tre consecutive a Wimbledon (1963 -1965). Grande Davisman, fu decisivo in tre successi per la sua squadra nazionale (1964-1966), per poi passare prima all’allenamento (tra gli altri ha seguito Vitas Gerulaitis) e quindi al microfono, dove per molti anni è stato apprezzata voce di Channel Nine, uno dei più importanti network australiani, e poi anche per CBS e Fox Sports in America. Ricordando sua lunghissima carriera, terminata nei primissimi anni ’80, Stolle teneva soprattutto alle vittorie in Davis, “Giocare e vincere per l’Australia ha significato tutto per me”.
    Crebbe a Hornsby, sulla costa settentrionale di Sydney, e il suo primo assaggio della Coppa Davis avvenne quando fu selezionato come raccattapalle durante la partita del 1951 tra Italia e Stati Uniti a White City. Fu una folgorazione: il tennis divenne il suo scopo di vita, tanto da abbandonare il cricket e il rugby, sport nei quali era parimenti promettente. In quell’epoca il tennis australiano vantava grandi tennisti, così che la sua famiglia riuscì a raccogliere i fondi necessari alla sua formazione e viaggi all’estero per completare la sua crescita tra la fine degli anni ’50 e i primi ’60. Vista la sua altezza (191 cm), Stolle dominava al servizio, bravissimo ad imprimere ogni tipo di effetto, ed era rapidissimo nello scendere a rete dove sapeva toccare la palla con maestria. Passarlo era faccenda molto complicata, anche per i migliori avversari.
    Nel 1963 raggiunse la finale in singolare e a Wimbledon al termine di uno tornei giocato da campione, ma fu sconfitto dall’americano Chuck McKinley. Arrivò al match per il titolo a Londra anche nei due anni successivi, battuto in entrambe le occasioni da Roy Emerson. La sua serie di sconfitte in finali Slam continuò anche a US Open 1964 e poi Australian Open 1965, tanto che su Stolle aleggiava una scomoda aura da “perdente” nelle partite decisive. Lui stesso dubitò di farcela, ma finalmente l’incantesimo si spezzò a Roland Garros 1965, con il primo titolo Slam battendo il connazionale Tony Roche in finale. Fred vinse il suo secondo Major a US Open nel 1966, superando in finale John Newcombe in quattro set, un successo che lo portò sul trono nel tennis maschile per la prima volta (ancora non c’era una classifica calcolata al computer). A New York nell’anno del suo successo era non nemmeno testa di serie, tanto che il cronista di Sport Illustrated Frank Deford attribuì la sua vittoria alla sua maestria nel “lob e smash”. In effetti Stolle sulla rete era tra i migliori e il suo tennis non difettava di sensibilità.
    Alla fine del 1966 Stolle divenne professionista. Con l’avvento dell’Era Open (1968) Fred raggiunse altri quattro quarti di finali in tornei Slam e continuò a giocare per tutti gli anni ’70 con risultati solo discreti, splendendo invece in doppio. La sua ultima partita ufficiale in singolo fu nel novembre 1982 a Baltimora, quattro anni dopo la sua ultima apparizione in singolo in uno Slam (Wimbledon 1978).
    Grandissimo amico di Roy Emerson, dai connazionali in Davis gli fu affibbiato il soprannome di “Fiery” (ossia infuocato), ma era un nomignolo del tutto ironico per stigmatizzare la sua proverbiale lentezza nell’avviare l’attività al mattino e una certa tranquillità negli allenamenti, a dispetto del furore agonistico di molti suoi colleghi. Stolle non se la prese mai, forte di uno spiccato senso dell’umorismo e voglia di vivere la vita con serenità e allegria. In un commento scrisse che “per alcuni il campo da tennis era come un ring di pugilato, ma non per me, l’ho sempre visto come un palco”.
    Suo figlio Sandon divenne un professionista, con una buona carriera in doppio. I più giovani lo ricordano come commentatore, sempre pronto a chiare analisi del gioco e spesso anche critiche pungenti, ma garbate e mai sopra le righe. Era un uomo di classe, in campo e fuori. Dopo Neale Fraser, scomparso lo scorso dicembre, un altro grande del tennis australiano ci lascia. Rod Laver ha scritto un post in ricordo del connazionale e amico. “Come ho scritto nel mio libro sull’epoca d’oro del tennis australiano, Fred Stolle era un tipo troppo gentile per serbare rancore. Ci voleva il migliore per battere il migliore. Non ci siamo mai stancati di rivivere il passato mentre viaggiavamo per il mondo guardando al futuro con un amore duraturo per lo sport”.

    As I wrote in my book on the Golden Era of Aussie tennis, Fred Stolle was too nice a guy to hold a grudge. He won many Grand Slams and was in the finals of many more. It took the best to beat the best. We never tired of reliving the past as we travelled the world looking into the… pic.twitter.com/yTkdrRvEPZ
    — Rod Laver (@rodlaver) March 6, 2025

    Questo il ricordo di Craig Tiley, CEO di Tennis Australia: “”Quando parliamo dell’epoca d’oro dell’Australia e del passaggio dal dilettantismo al professionismo, il nome di Stolle è lì con i migliori. Membro di spicco della squadra australiana di Coppa Davis, Fred ha dato un contributo significativo allo sport dopo la sua carriera decorata, come allenatore e arguto commentatore. La sua eredità è fatta di eccellenza, dedizione e profondo amore per il tennis. Il suo impatto sullo sport sarà ricordato e amato da tutti coloro che hanno avuto il privilegio di assistere al suo contributo”.
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    Nardi da Indian Wells: “Questo è un posto speciale per me. Ho cambiato il bilanciamento della racchetta, così servo meglio”

    Luca Nardi, al best ranking in classifica (n.67 – Foto ATPsite)

    Quando si torna in un posto dove è successo qualcosa di magico, dove si è stati bene, è impossibile non rivivere nella memoria quei momenti. Così Luca Nardi, tornato a Indian Wells un anno dopo il clamoroso successo sull’allora n.1 del mondo Novak Djokovic, varcando la soglia del Centrale ha rivisto come in film quella partita che l’ha reso celebre in tutto il mondo. Il marchigiano infatti, a dispetto di un talento tecnico straordinario, non era fin lì riuscito a farsi notare al grandissimo pubblico internazionale, un po’ bloccato in una sorta di limbo tra il grande tennis e il Challenger tour, dove ha raccolto buoni risultati ma senza quella continuità necessaria a spiccare il volo. Da allora è passato un anno, non c’è più coach Galimberti nel suo angolo e gli alti e bassi sono continuati. Da qualche settimana però Luca sembra aver trovato nuova spinta, schemi più razionali e solidi a sostenere quella sua straordinaria facilità di impatto che gli consente di fare quel che vuole con la palla. L’azzurro esordirà nella notte italiana al Masters 1000 californiano contro l’ex top 10 Cameron Norrie, match ricco di insidie visto che il britannico, seppur sceso nel ranking, resta un tennista che può darti molto fastidio con il suo poco ritmo, schemi mancini e attacchi ripetuti. Interpellato dal sito ATP, Nardi così ha ricordato quella vittoria su Djokovic e si è soffermato anche su di un importante cambiamento nella sua attrezzatura.
    “Non appena sono arrivato, ho iniziato a provare delle emozioni molto belle” racconta Nardi. “È una sensazione speciale tornare qui. Di solito non sono Luca Nardi. Sono il ragazzo che ha battuto Novak Djokovic. Forse non sanno il nome, ma sono il ragazzo che ha battuto Djokovic”, sorride. Quel successo contro il suo idolo, di cui aveva il post in camera, non lo potrà mai dimenticare, come la sensazione al momento di servire per chiudere la partita… “Sul match point ho pensato che avrei potuto fare un doppio fallo, cosa che faccio di solito”, afferma Luca, accennando un sorriso. “E invece ho tirato un Ace! È stato qualcosa di pazzesco, andare a rete a stringergli la mano, consapevole che avevo vinto io, e lui, il migliore, aveva perso… è stato qualcosa che non avrei mai potuto immaginare. È stato un momento molto bello”.
    Dopo quella vittoria sorprendente e grandissima Nardi vinse al Challenger di Napoli, ma dopo Monte Carlo arrivò un momento nero, senza due vittorie di fila fino a settembre. “In realtà, dopo quella partita il mio gioco non è stato così buono“, racconta Nardi. “Ma alla fine dell’anno e negli ultimi mesi, di sicuro ho giocato meglio. Lo dimostra la mia scalata nella classifica”. Nardi ha vinto il Challenger di Rovereto lo scorso autunno e quindi ha raggiunto la finale qualche settimana fa, sempre a livello Challenger, a Coblenza (Germania), fino alla splendida cavalcata di Dubai dove da lucky loser è arrivato nei quarti di finale, attestandosi al proprio best ranking di n.67.
    Un ottimo momento per il pesarese, figlio anche di un aggiustamento del telaio: “Ho cambiato il set up della mia racchetta nelle ultime due settimane, quindi non molto tempo fa. È la stessa racchetta, ma ho fatto qualche modifica nel bilanciamento e mi sta aiutando molto. Sto servendo un po’ meglio“.
    “Qua è un posto in cui ho giocato un buon tennis, quindi penso di poter ottenere un buon risultato anche quest’anno. Non vedo l’ora di giocare” conclude Luca. In caso di vittoria contro Norrie (il britannico ha vinto l’unico precedente a Roma 2022), Nardi troverà Jiri Lehecka al secondo turno, un rivale molto ostico su questi campi. Ma è sempre meglio andare un passo per volta. Ancor più se ti chiami Luca Nardi, hai un grandissimo talento ma sei ancora a caccia di continuità di gioco e risultati.
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    Roddick sui campi più veloci di Indian Wells: “Sarà favorito chi riesce a far saltare tanto la palla, come il servizio di Shelton o il diritto di Ruud”

    And Roddick

    Andy Roddick non vede l’ora di assistere ai match dell’edizione 2025 di Indian Wells che, con campi rinnovati e più rapidi, potrebbe mescolare non poco le carte in tavola. L’ex n.1 americano non ha mai vinto in carriera il titolo in California (vinse il doppio nel 2009 con Mary Fish), ma pensa che se potesse giocare oggi con il suo servizio e diritto, avrebbe di che divertirsi…
    “La palla volerà ancor di più a Indian Wells, perché puoi cambiare tutto ma non puoi adattare l’aria”, afferma Roddick nel suo seguitissimo podcast Served with Andy Roddick. “Qua l’aria è quella deserto, soprattutto nei match di giorno, c’è lo 0% di umidità quindi se fai un servizio carico di effetto kick…la palla rimbalzerà sopra la testa di qualcuno. Rispondere sarà difficile e avrò il tempo per girarmi sul mio diritto e tirare una pallata dall’alto verso il basso. Ci sono diversi modi per usare questo campo più rapido e queste condizioni a tuo favore“.
    “Con i match vedremo se davvero il campo sarà molto più rapido di prima. Se si va verso una superficie come US Open o Cincinnati e hai quell’aria dove non c’è abbastanza umidità per rendere la palla un po’ più pesante, vedrai Reilly Opelka che spara servizi kick mandando la palla oltre la terza fila…! Ben Shelton potrebbe leccarsi i baffi. Ma non solo grandi servizi. Uno come Casper Ruud, con il suo diritto pesante e carico di spin, tirerà delle palle che manderanno i rivali a ribattere fuori dal campo“.
    Secondo Roddick quindi il cambio di manto da Plexipave a Laykold potrebbe cambiare nettamente rimbalzo, vista la combinazione unica nel deserto con l’aria estremamente secca. Quindi i giocatori che potrebbero trarre vantaggio da questo cambiamento sono coloro che tirano colpi potenti e carichi di spin. Andy poi si concentra sulle condizioni generali nel tennis, affermando che a suo dire le palle restano ancor più importanti delle superfici, e che i giocatori alla fine si adattano e tarano il proprio tennis in relazione alle condizioni generali che trovano. Quindi chi punta il dito contro un tennis un po’ “omologato” non dovrebbe accusare i tennisti quanto chi ha creato questa combinazione di palle e campi.
    “Non credo che dovremmo preoccuparci di rendere tutte le superfici uguali” continua Roddick, “non credo che molti di coloro che ascoltano questo podcast abbiano seguito il tennis maschile e il modo in cui si è evoluto negli ultimi 25 anni, e questa non è una critica a dove siamo, ma penso che le superfici lente siano arrivate dominare l’annata mentre quelle veloci sono in un certo senso scomparse, quindi siamo in questa situazione in cui molto del tennis che vediamo sembra tutto uguale. I giocatori giocano tutti allo stesso modo? Penso che i tennisti tirino fuori la versione più efficace di se stessi in base alle condizioni che gli stai dando. Vi garantisco che se rendiamo tutto assai più veloce come negli anni ’90, tornerebbero un sacco di grandi volée molto rapidamente, questo è l’aspetto più importante“.
    “Se vogliamo concentrarci su qualcosa di davvero importante, focalizziamoci sul peso di una palla, sulla qualità del feltro, queste due cose contano più di ogni altra. La palla conta molto di più rispetto al campo per l’impatto sul gioco e anche per quanto riguarda la salute. In realtà io vorrei vedere i campi diventare un po’ più estremi, vorrei vedere un torneo che è davvero veloce: vi assicuro che i tennisti giocheranno bene perché si adattano anche se è molto veloce. Ci sarebbe qualcosa di diverso”.
    Ultima nota di Roddick sul calendario: “Non so se ho capito del tutto il senso di giocare un torneo su cemento a marzo e aver bisogno di abbinarlo a un torneo su cemento a settembre, quando non hai altro che terra battuta ed erba in mezzo”.
    Considerazioni interessanti, come sempre nel podcast di Andy, probabilmente il migliore in giro per analisi e qualità dei contenuti – come ha dimostrato analizzando con dettagli e competenza la faccenda di Jannik Sinner nelle scorse settimane. Carlos Alcaraz si è lamentato del cambio di superficie a Indian Wells, dove troverà condizioni assai diverse rispetto alle ultime due edizioni, da lui vinte. Tuttavia, secondo quel che ha spiegato Roddick, se si gioca con potenza e spin si potrà sfruttare al meglio questo campo che farà saltare di più la palla senza rallentarla troppo. In base alla logica, Alcaraz ha forza nel corpo e può generare molto spin, quindi in teoria non dovrebbe essere così svantaggiato. È vero che lo spagnolo ama giocare in anticipo e picchiare la palla con grandi accelerazioni, ma soffre meno di tanti altri un rimbalzo assai accentuato. Alla fine forse il nocciolo della questione è quello sottolineato da Roddick: i giocatori danno la miglior versione di se stessi adattandosi alle condizioni che trovano. Vince chi è più bravo ad analizzare il contesto e trovare la soluzione.
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    Larry Ellison, il “guru” di Indian Wells

    Larry Ellison con Novak Djokovic

    Come è possibile passare in una manciata di anni dall’orlo della bancarotta e cancellazione dal calendario ATP (o almeno deciso declassamento) a torneo più ricco, meglio organizzato e pluripremiato della stagione tennistica? Beh, un colpo di genio, o di fortuna. O meglio ancora, la combinazione delle due cose. Ogni sogno è diventato realtà in quel di Indian Wells grazie alla visione e “billions” del proprietario del Masters 1000 californiano, Larry Ellison, uno degli uomini più ricchi del mondo e grandissimo appassionato di tennis. Il “guru” dell’informatica, da sempre amante del nostro sport, decise nel 2009 di rilevare il torneo californiano dopo averlo inizialmente sostenuto da lontano in una complessa operazione di salvataggio. Da lì in avanti qualche anno di consolidamento e quindi via a progetti faraonici di ampliamento e miglioramenti continui, fino all’attuale definizione di “Tennis Paradise” che è tanto marketing ma ha anche del vero, vista la straordinaria accoglienza e qualità dei servizi riservati a giocatori e pubblico, migliaia di appassionati che ogni fine inverno arrivano in quest’oasi nel deserto e si lasciano cullare da mille opportunità di svago e tennis di primissima qualità.

    Un po’ di storia
    Il torneo di Indian Wells nacque grazie agli sforzi di due ex Pro, Charlie Pasarell e Raymond Moore. Tra il 1974 e il 1976 non figurava nella stagione tennistica ufficiale, entrando nel Grand Prix Tennis Tour nel 1977. Il primo campione fu Brian Gottfried e il suo albo d’oro vanta quasi tutti i più grandi nella storia del gioco (eccetto Borg e McEnroe, fatto questo assai curioso). Ci furono anche degli spostamenti di sede, fino a stabilirsi nell’area attuale, la Coachella Valley nei pressi di Palm Springs (a 201 km da Los Angeles). Negli anni il torneo crebbe moltissimo come notorietà e valore, restando sempre appena dietro a Key Biscayne (all’epoca considerato il “quinto Slam”) e vivendo alti e bassi e livello economico. Nel 2000 si decise di costruire da zero l’Indian Wells Tennis Garden per rinnovare le strutture, con la visione di diventare un punto di riferimento del tennis nel nuovo millennio, forte anche dei finanziamenti di Mark McCormack. La creazione del primo stadio fu stupefacente, ma negli anni il peso degli investimenti e qualche problema con alcuni sponsor statunitensi dopo il boicottaggio delle sorelle Williams misero il torneo in grande difficoltà. Quella faccenda esplose su tutti i media nazionali e la immagine dell’evento non ne uscì all’epoca benissimo. Le due Williams avrebbero dovuto giocare una contro l’altra la semifinale nel 2001, ma Venus si ritirò a causa di un infortunio non meglio precisato. Uscirono pesanti speculazioni di una scelta di comodo, di papà Richard che avrebbe deciso per mandare avanti Serena; la folla nel corso della finale fischiò ripetutamente Serena, sia durate il gioco che nel corso della premiazione, dopo aver trionfato. Nove giorni dopo, mentre partecipava al torneo di Miami, Richard Williams dichiarò senza mezzi termini di esser stato assalito verbalmente mentre era sugli spalti con Venus ad assistere la finale, “qualcuno mi urlò che mi avrebbero scuoiato vivo”. Il direttore del torneo di Indian Wells Charlie Pasarell affermò molto amareggiato “Mi sono sentito in imbarazzo quando è successo tutto quello che è successo. È stato ingiusto che la folla facesse una cosa del genere”. Serena e Venus disertarono il torneo fino al 2015, quando il nuovo capo Ellison chiamò di persona le due, convincendole a tornare.
    Oltre a questo episodio il torneo visse un momento di gravissima crisi economica tra 2006 e 2007: alcuni importanti sponsor non rinnovarono il proprio contratto tanto che Indian Wells arrivò ad un passo dal perdere la data poiché non era assicurata la copertura finanziaria triennale necessaria al rinnovo con l’ATP. E c’era dell’altro a minacciare fortemente Indian Wells. Dall’altro lato del deserto c’era l’uomo più ricco del mondo all’epoca, il magnate della telefonia messicana Carlos Slim, che spingeva per portare l’allora Master Series nella incantevole baia di Acapulco, all’interno di un faraonico progetto di rilancio dello sport e dell’entertainment messicano insieme ad investimenti notevoli in un nuovo complesso sportivo – alberghiero di lusso. Numeri da capogiro, un progetto molto ben realizzato e la curiosità da parte dell’ATP di esplorare un mercato potenzialmente enorme, mentre il tennis a stelle e strisce iniziava la discesa con la chiusura dell’epopea di Sampras e Agassi. Nell’ambiente finanziario si parlava di accordo già fatto, la firma del passaggio di data come cosa fatta e Indian Wells declassato ad ATP 250 dal 2008. Quando le bottiglie di Champagne negli uffici della Telmex di Slim erano già pronte sul tavolo, Passarell con un colpo di coda ottenne una nuova copertura finanziaria che fece saltare in extremis l’accordo e il torneo restò ad Indian Wells, con grave smacco per i messicani che minacciarono anche le vie legali per vederci chiaro. Chi c’era dietro a questo rilancio?
    Non è mai stato chiarito, ma visto che nel 2009 Larry Ellison divenne ufficialmente il proprietario del torneo, è facile pensare che già all’epoca il suo intervento possa esser stato decisivo. Ma chi è questo signore sorridente che ogni anno non si perde un match di cartello sul centrale del suo torneo, dialogando spesso e volentieri nel suo box in primissima fila con gente come Federer, Agassi, Djokovic e via dicendo? Ellison non è noto al grande pubblico come i magnati della finanza o gli inventori delle nuove aziende hi-tech che oggi dominano il mercato, come Bill Gates e via dicendo, ma è da anni uno dei personaggi più influenti al mondo, grazie alla sua visione e prodotti rivoluzionari. La sua è la classica storia americana, di uno che si è fatto da solo partendo dai bassifondi.

    Ellison, la rivoluzione nella gestione di dati a database
    Nato nel 1944 nel Bronx, per Forbes nel 2024 è il quinto uomo più ricco del mondo con un patrimonio stimato di 141 miliardi di dollari. La sua creatura è Oracle, impresa con oltre 140mila dipendenti in tutto il mondo, meno visibile di Apple, Microsoft, Google, Amazon e tutte le varie big-tech che dominano il mercato, ma se pagate con una carta di credito, prenotate un volo o un hotel, o cercate qualche servizio di vario genere, al 99% anche se non lo sapete state usando un database o sistema creato, affinato e venduto proprio da Ellison. Ne ha fatta davvero tanta di strada questo genio della matematica, figlio di una ragazza madre e adottato da piccolo. E pensare che la sua famiglia lo considerava un sorta di perditempo, tanto da spingerlo a non insistere per lo studio; ma il giovane Larry non abbandonò mai la sua passione e clamorosa intuizione per la matematica ed i sistemi, diventando la sua fortuna.
    Lasciati gli studi universitari dopo un solo semestre, scommette su se stesso recandosi in California, ambiente più stimolante e non basato sull’industria ed economia tradizionale. Ellison non era interessato ad un lavoro tradizionale, una scrivania e una famiglia; lui vedeva avanti e voleva studiare il mondo, capire come poter applicare la sua intuizione e convinzione che con i numeri si potesse costruire un sistema per fare cose strabilianti. Per diversi anni passa da un’azienda all’altra lavorando come tecnico e facendo esperienza, i semi per la nascita di una impresa tutta sua. Rivoluzionaria. “I manager erano burocrati conformisti, riluttanti a prendere decisioni, paralizzati dalla paura di sbagliare. Con mia sorpresa mi resi conto che ero migliore di loro nello scegliere la strada giusta e risolvere problemi” racconta Ellison a Matthew Symonds, autore del libro Softwar. An Intimate Portrait of Larry Ellison and Oracle. La svolta arriva ne, 1977: Larry lavora per una azienda che raccoglie milioni di dati, ma non riesce a trovare un modo per organizzarli in modo efficace. Siamo all’alba dei computer, e qua Ellison prende la palla al balzo, convincendo due colleghi a seguirlo nella sua visione, quella di creare una nuova azienda per fare consulenza sull’archiviazione e gestione dei dati attraverso un software nuovo e mai visto prima.
    Ellison inizialmente aveva pensato ad una gestione dei dati, ma la mole di lavoro era impossibile da sopportare con mezzi tradizionali, quindi da una esigenza nasce la risposta, e la rivoluzione: creare una software che faccia lavorare di meno, e guadagnare di più. “Avevamo un sacco di richieste, ma per soddisfarle stavamo in ufficio 11 ore al giorno, 7 giorni su 7. Così ho deciso di lasciar perdere la consulenza per dedicarmi ai software, molto più vantaggioso perché un programma si crea e poi si continua a vendere” affermò Ellison. Spinse tutte le sue idee e risorse per creare un nuovo sistema per archiviare i dati dei database, più rapido e soprattutto con chiavi di ricerca e gestione più efficaci. A quell’epoca non esisteva un sistema soddisfacente e per questo l’avvento del suo nuovo software cambiò le regole del gioco, un sistema che memorizza i dati sia logicamente, sotto forma di tablespace, sia fisicamente, sotto forma di file (datafile). Era appena nato Oracle. “Il prodotto doveva avere velocità e affidabilità, questi i punti di forza. Puntammo a un mercato non appetibile per IBM (il gigante dell’epoca, ndr) e che fosse rischioso: così avremmo avuto meno competitor” continua Ellison. Rischio alto, ma altissimo il rendimento perché nessuno ha un prodotto così, tanto che tutti si interessano a questo sistema di archiviazione e gestione dati, addirittura la CIA. Quella collaborazione nacque per un colpo di genio e fortuna, visto che uno dei soci di Ellison era conosciuto dal responsabile acquisti dell’Agenzia dell’Intelligence degli USA.

    Dalla CIA al… mondo
    Aver suscitato l’interesse della CIA fu una mossa commerciale straordinaria, in brevissimo tempo il passaparola portò Oracle sulla bocca di tutti, grandi aziende comprese, ma c’era un enorme punto di domanda: lo sviluppo e vendita richiedevano cash, un flusso costante di denaro che… mancava, poiché per vendere il prodotto stesso i pagamenti all’inizio erano stati dilazionati nel tempo, in modo che i clienti potessero provare il sistema e assicurarsi della sua bontà. Casse vuote. La scommessa di Ellison fu lavorare senza guadagnare un dollaro, per diverso tempo, e con lui i migliori collaboratori, con l’impegno di premiarli in modo più che soddisfacente nel breve periodo. Altro scoglio per Oracle era garantire la massima compatibilità con i vari sistemi informatici: nel 1980 non eravamo come oggi adagiati su un paio di sistemi operativi, c’era un mercato in continua evoluzione. Ellison gira come un matto per tutte le case software in modo da studiare i vari prodotti e far sì che il suo gioiello possa funzionare senza intoppi. Alti e bassi, ma alla lunga possiamo affermare che ha vinto lui.
    Dopo l’enorme interesse iniziale, la crescita fu importante ma non così immediata come lo stesso Ellison si aspettava. Importanti aziende informatiche consideravano Lary e i suoi prodotti come “inutili”, forse temendolo… Infatti Oracle rispetto agli USA ebbe un impatto superiore in Europa, dove c’era un approccio al cliente meno basato sul guadagno a breve termine, e si cercava soprattutto un partner tecnologico affidabile nel lungo periodo, per non aver problemi. Quindi oltre alla forza di vendita, necessaria alla crescita, Larry investe molto nell’assistenza e formazione, andando a rastrellare sul mercato i migliori tecnici che, forti della loro competenza, erano in grado di spiegare ai clienti i vantaggi del sistema Oracle rispetto a tutti gli altri. Questo divenne altra sua mossa vincente. Dai 50 dipendenti del 1983, moltissimi puri venditori, nei primi anni ’90 la sua impresa diventa una realtà forte e consolidata in tutto il mondo. Con 131 milioni di dollari di fatturato, Oracle sbarca in borsa nel 1986. Il treno di Ellison, nonostante scontati alti e bassi quando si parla di hi-tech vista la volubilità del mercato, e qualche errore strategico prontamente rimediato con una fede incrollabile nella sua azienda, era partito e non si è più fermato.
    Con i guadagni mostruosi maturati, Ellison si è tolto molti sfizi. Dall’acquisto di una isola alle Hawaii ad alcuni giocattoli “discutibili” (addirittura degli aerei da combattimento ex sovietici, con più di qualche difficoltà per farseli consegnare negli States…), fino all’approdo nel mondo dello sport, prima la vela in American’s Cup dove arrivò secondo nel 2004 poi il tennis, una delle sue grandi passioni. 100 milioni per rilevare il torneo di Indian Wells nel 2009, altrettanti per un primo rilancio e poi moltissimi investimenti per costruire pezzo dopo pezzo il “Tennis Paradise”. Oggi il suo torneo è considerato il migliore al mondo dopo gli Slam. Sogna di arrivare al rango dei Major, ma intanto si gode la sua creatura con un motto che rilancia nelle poche interviste che concede: “Non mi interessa diventare l’uomo ricco del mondo, sarò felice quando con le mie azioni renderò il mondo un posto migliore. Ma non chiamatelo altruismo, il mio è egoismo. Anzi, chiamartelo egoismo illuminato”.
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    Sartori crede nel recupero di Zeppieri: “Ha il tennis per competere ad alto livello, deve stare lontano degli infortuni e trovare continuità”

    Massimo “Max” Sartori

    Tutti gli appassionati della racchetta associano il nome di Massimo Sartori a quello di Andreas Seppi. I due hanno creato uno dei sodalizi più longevi e vincenti nella storia del tennis italiano, ma il coach vicentino è entrato in qualche modo nelle carriere di molti giocatori. Non tutti lo sanno, ma Max è stato decisivo anche per Jannik Sinner: fu infatti il primo coach di livello internazionale a visionarlo da bambino in Alto Adige e riuscì a portarlo da Riccardo Piatti, dove l’attuale n.1 si traferì a soli 13 iniziando quella formazione del fisico e della tecnica necessaria a costruire le basi per la futura scalata verso l’Olimpo della disciplina. Sartori da circa due anni segue Giulio Zeppieri, talento laziale impegnato in una impegnativa risalita dopo il lungo stop necessario a recuperare da un serio infortunio al polso sinistro e conseguente operazione. Otto mesi duri per l’azzurro, e tutti sanno quanto il polso sia forse la parte del corpo in assoluto più delicata per un tennista.
    Nel 2025 Zeppieri ha ritrovato un buon livello, come dimostra la semifinale al Challenger 100 di Koblenz, in Germania. Sprofondato al 394 ATP per colpa dell’infortunio, Giulio è assai lontano dal proprio best di n.110 del gennaio 2024 e da quel livello altissimo che gli aveva consentito di giocare ad armi pari contro un certo Carlos Alcaraz nella semifinale dell’ATP di Umag 2022. Molti rimasero affascinati della potenza, angoli e aggressività di Zeppieri, pronosticandoli un futuro assai roseo. Purtroppo problemi fisici e qualche mancanza e/o difficoltà di crescita non gli hanno consentito di consolidare quel grandissimo torneo, ma per il suo coach Sartori il problema di Giulio è negli infortuni e nella mancanza di continuità, non nel livello di gioco. “Il tennis per competere ad alto livello lui ce l’ha”, afferma Max in un’intervista a SuperTennis, della quale riportiamo i passaggi più interessanti.
    Si parte con lo stop e l’operazione al polso, ormai non più rimandabile: “A Parigi, lo scorso anno, Giulio ha avvertito un fastidio e ha capito di avere un problema serio. Abbiamo provato ad andare avanti per avere un quadro più preciso della situazione ma dopo i Challenger di Perugia e Sassuolo abbiamo capito che era necessaria un’operazione” racconta Sartori. “Abbiamo deciso di comune accordo di portarlo dal professor Angel Ruiz Cotorro, il medico della Nazionale iberica e che si è visto spesso nel box di Rafa Nadal. È il dottore che ha operato quasi tutti i giocatori che hanno avuto problemi al polso ed è quello che dava più garanzie per la buona riuscita dell’intervento. C’era l’idea che potesse avere un problema sia ai legamenti che all’osso; è stato necessario intervenire sull’osso mentre, fortunatamente, il legamento non era rotto. È stato un percorso abbastanza lungo”.
    Giulio ha ripreso l’attività, ma Sartori resta molto cauto… “Sta ancora recuperando, però almeno ora riesce a giocare. Parlando di ‘Zeppo’, ripeto spesso la parola ‘speriamo’, perché la verità è che stiamo vivendo giorno per giorno. In Germania aveva comunque un po’ di fastidio alla mano, ma abbiamo deciso di spingere un po’ di più, mentre in Australia eravamo andati solo per capire cosa sarebbe successo. ‘Zeppo’ ha una grande capacità ed è quella che se sta bene, va in campo e gioca per vincere, senza nessun problema. Non è uno di quelli che necessita di molti match come rodaggio, in questo è piuttosto forte. Devo fare i complimenti al lavoro che è stato fatto dal team e soprattutto a lui che è un ragazzo veramente in gamba”.
    Zeppieri ha fatto base a Vicenza all’Academy di Sartori da due anni: “In questo periodo è cresciuto molto. Parlando di lavoro, nell’ultimo anno si è preso la responsabilità di portare avanti tutto quello che gli mancava e ha lavorato tantissimo per arrivare nei top 100, obiettivo mancato solo a causa dell’infortunio. Avevamo una programmazione mirata a portarlo nei primi 100 già nel settembre del 2023. Poi è successo che nel luglio di quell’anno siamo andati insieme a giocare il Challenger 75 a Karlsruhe. In finale stava dominando il cileno Alejandro Tabilo ma, vinto il primo parziale per 6-2, ha avuto una brutta storta alla caviglia che lo ha costretto al ritiro. Era un match che avrebbe vinto perché stava dominando l’avversario. Il recupero è stato lungo e non semplice e ci ha portato via un paio di mesi”.
    Sempre problemi fisici a rallentarne la crescita, ma ne ha fortificato il carattere: “È per questo che in questi anni abbiamo lavorato tanto sul rinforzare il suo corpo. Oggi è cambiata la qualità del suo fisico e devo fargli i complimenti perché ha lavorato tanto ed è stato veramente bravo. Gli infortuni ti fanno riflettere. La sua forza è quella di aver ‘scelto’ di giocare a tennis. Ci ha messo la faccia per cambiare e nell’ultimo anno più che mai. Adesso è tranquillo, se ha la fortuna di stare bene e di prendere un po’ di ritmo può andare avanti”.
    Ecco dove Sartori è intervenuto nel tennis di Zepperi nell’ultimo periodo: “Abbiamo concentrato i nostri sforzi su alcuni, per me importanti, cambiamenti tecnici. Mi riferisco soprattutto all’esigenza di cercare meglio la palla. Lui la cercava molto alta e poi tirava delle ‘stecche’ fortissime di diritto: probabilmente, anche per questo alla fine la mano ha ceduto. Così facendo, poi, il colpo risultava non pulito. Oggi invece cerca molto di più la palla e si posiziona meglio. Adesso, di diritto, è capace di fare male anche colpendo dal basso. Sul rovescio avevamo l’esigenza che lui tirasse un po’ più forte, con un po’ più di taglio invece che solo piatto e anche lì è migliorato molto. Servizio? Qui lui partiva già da una base molto valida, ma abbiamo cercato di insegnargli a usare tutti gli angoli. Adesso stiamo lavorando per portare il suo gioco verso la rete e a giocare meglio il back. Però la cosa di cui abbiamo più bisogno non è un colpo specifico ma la continuità. Il tennis per puntare in alto lo ha, adesso è importante anche fare punti”.
    “A Giulio serve un po’ di fortuna per stare lontano dagli infortuni e poi la chiave sta tutta nella continuità, che è quello che gli è mancato negli ultimi anni. Giocare due o tre settimane di tornei consecutivamente, poi un po’ di allenamento e quindi riposo e ricominciare così. È questa la routine che ci serve per risalire la classifica. Il sogno sarebbe quello di disputare un’intera stagione senza infortuni… speriamo” conclude Sartori.
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    28 febbraio 1983: Lendl diventa n.1 del mondo, prima di aver vinto uno Slam

    Ivan Lendl

    Sono passati ben 42 anni esatti da quando il ranking mondiale del tennis salutò un nuovo n.1: Ivan Lendl. Il campione di Ostrava riuscì a completare una lunga rincorsa partita nel 1982, quando vinse ben 15 tornei in stagione, ma nessuno Slam. E il diritto più potente dell’epoca fu costretto ad attendere ancora un anno bello lungo prima di coronare il suo sogno a Parigi 1984, rimontando in finale due set ad un John McEnroe quasi imbattibile nel suo anno d’oro e finalmente iscriversi al club dei campioni Major.
    A fine 1982 ormai era chiaro che Lendl fosse a un passo dallo scalzare i suoi due grandi rivali, McEnroe e Connors, avvicinati tantissimo a furia di ottimi risultati e una grande costanza di rendimento, frutto dei suoi allenamenti maniacali e un tennis molto potente da fondo campo. Ivan sconfisse i due americani uno dopo l’altro vincendo il Masters di fine anno, titolo più importante del suo straordinario 1982. Lendl iniziò la stagione 1983 al numero 3 al mondo, ma dopo poche settimane salì al primo posto dopo una corsa vincente a Detroit e la finale a Philadelphia. “Ero tra il secondo e il terzo posto da due, tre anni. Non era esattamente dove volevo essere”, affermò Lendl dopo aver coronato la sua rincorsa.
    McEnroe e Connors si erano divisi il primo posto in classifica dall’agosto 1981 fino al 27 febbraio 1983. Da lì in avanti ci furono cambi repentini al vertice, fino all’annata quasi intoccabile di McEnroe nel 1984, quando vinse 82 partite perdendone solo 3, e restando n.1 ATP per 53 settimane tra 1984-85. Con il calo di John e la definitiva consacrazione di Lendl dopo il successo a Roland Garros, il ceco regnò sul trono del tennis maschile per 157 settimane, esattamente dal 9 settembre 1985 (dopo il suo titolo a US Open) fino all’11 settembre 1988, quando uno straordinario Mats Wilander lo sconfisse clamorosamente nella finale di New York e lo scalzò anche dal vertice della classifica.
    Lendl ha trascorso 270 settimane da numero 1 in otto periodi. Le sue 270 settimane al vertice rimasero il record assoluto fino all’agosto del 1999, quando fu sorpassato da Pete Sampras (che finì la carriera con 286 settimane da leader). Il record di Pete fu superato da Roger Federer (310 settimane), poi a sua volta scavalcato da Novak Djokovic (428).
    Lendl quando divenne n.1 nel 1983 non era il tennista più amato, soverchiato dalla maggior personalità di Connors e fantasia di McEnroe, con ancora in quegli anni il “fantasma” di Borg che aleggiava nel ricordo degli appassionati, ma certamente il ceco era uno tra i giocatori più temuti e assai rispettato. Ivan era un prodotto totalmente nuovo per la disciplina: il suo avvento ha letteralmente alzato l’asticella della competizione nel gioco da fondo campo. È stato a suo modo un rivoluzionario, stabilendo nuovi standard per consistenza e pesantezza dei suoi colpi, una rottura rispetto ai canoni del tennis dell’epoca che vedevano una netta dicotomia tra gli attaccanti proiettati a rete e i difensori, ancorati dietro. Leggendario fu il suo diritto in top spin, esecuzione mai vista prima per potenza e continuità di rendimento, soluzione eccezionale sia nel chiudere il punto dalla riga di fondo che nel tirare dei passanti vincenti e sfidare (spesso punire) i tantissimi giocatori di volo dell’epoca.
    Lendl era in grado come nessun altro di spingere la palla con meccanica costanza per ore ed ore, forte di una condizione fisica portata a nuovi livelli applicando metodologie di allenamento scientifiche, quasi fanatiche vista l’attenzione maniacale ad ogni aspetto, dalla dieta al riposo passando anche per i capi di abbigliamento. Una vera leggenda del tennis.
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    “Shapo”, un record personale significativo

    Denis Shapovalov (foto Getty Images)

    Mica facile trovare continuità di risultati quando il faro che guida il tuo talento è l’istinto, una visione del tutto personale e divergente del campo, delle traiettorie e dell’impatto con la palla che ti porta a vedere cose che la maggior parte dei rivali nemmeno immaginano, ma pure a commettere troppi errori e produrre prestazioni inconsistenti, senza un filo logico tatticamente accettabile. Denis Shapovalov è sempre stato tutto questo e molto di più, un coacervo inestricabile di giocate da highlight in mezzo ad un caos tanto colorito quanto difficile da imbrigliare in una condotta di gioco efficace e, alla lunga, vincente. Il canadese ha illuso moltissimi appassionati del tennis effervescente e creativo con le magie del suo braccio mancino, ricavando una manciata di grandi vittorie e troppe brutte sconfitte, ma forse qualcosa è cambiato. Ne avevamo parlato di recente dopo il suo bel successo a Dallas, primo ATP 500 in carriera, e torniamo a farlo con piacere perché il buon “Shapo” sta marciando molto bene anche ad Acapulco, con l’accesso alle semifinali del 500 messicano dopo aver superato nei quarti Marcos Giron, rimontando un set allo statunitense. Denis con le tre vittorie in riva al Pacifico (Basavareddy, Michelsen e Giron) porta a 8 la sua striscia di successi consecutivi, non gli era mai accaduto in carriera.
    È un piccolo primato personale molto, molto significativo poiché è la conferma che il suo tennis, anzi la sua mentalità e focus, forse sono davvero cambiate, portandolo ad un livello assai superiore di competitività e consistenza. In Messico Shapovalov ha continuato, addirittura con maggior vigore, quel che di buono si era visto a Dallas. Fisicamente sta benissimo, il problema al ginocchio che l’ha tormentato per mesi e portato ad un lungo stop sembra del tutto archiviato, e questo è decisivo visto quanto il suo tennis si nutre di energia, potenza e spinta che nasce proprio da una forza notevolissima nelle gambe. Quando Denis arriva sulla palla infatti riesce a scaricare grande forza grazie ad un’elasticità innata che lo porta ad essere esplosivo, sia quando è aderente al terreno che quando spicca il volo e colpisce in aria trovando un controllo della palla unico. A volte persino misterioso… pochi o nessuno riescono a tirare quelle bordate col rovescio ad un mano, in salto, senza mai scoordinarsi. Roba mai vista.
    Il servizio sta sostenendo molto bene la sua prestazione e questo è decisivo perché non solo gli porta diversi punti gratis, ma perché gli apre il campo all’affondo successivo e allo stesso tempo, forte di molti turni di battuta vinti in sicurezza, lo rende più libero di aggredire in risposta e procurarsi le chance per l’allungo.
    Ma il vero salto di qualità è nel focus, in quel briciolo di pazienza e lucidità in più che consente a Denis di non sparacchiare tutto a tutta, ma attendere la palla buona per sfoderare quella velocità di braccio spaziale che può diventare incontenibile. Il Denis prima maniera, beh, chiudeva gli occhi e via, voleva vincere le partite 48 punti a zero, o niente. Non funziona così… e l’ha imparato (finalmente!) dopo aver sbattuto il muso a terra tante, troppe volte. Mai castrare l’istinto di un purosangue, ma aver un minimo di raziocinio per non scappare dallo scambio immediatamente e combinare disastri era la condizione necessaria a diventare un tennista più consistente e vincente. Forse, piano piano, ci siamo arrivati e questa striscia di 8 vittorie di fila lo dimostra. Come sempre è necessario attendere altre verifiche, magari nei due Masters 1000 americani ormai alle porte, dove l’asticella salirà ancora. Sarà interessante anche vedere come andrà a finire in semifinale ad Acapulco contro Davidovich Fokina, un altro che ha discreta difficoltà nel contenere l’esuberanza in spinta e si perde spesso e volentieri quando la pressione sale. Shapovalov invece sembra aver trovato più equilibrio dentro, meno paura e più calma del gestire emozioni e situazioni di gioco sotto stress. I risultati parlano chiaro: “Shapo” c’è.
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