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    I 10 vincitori più giovani agli US Open

    Pete Sampras a US Open 1990

    Con le qualificazioni già in corso, il count down per gli US Open, quarto Slam stagionale, è già scattato. Cresce l’attesa per l’edizione di quest’anno, sia per i tennisti azzurri che per i grandi del panorama internazionale. Jannik Sinner nel 2022 si è fermato nei quarti di finale, al termine di una partita clamorosa (la più bella della stagione) nella quale non è riuscito a trasformare un match point contro il futuro campione Carlos Alcaraz. Se avesse trovato un vincente in quel momento, chissà… Oltre alla curiosità di ritrovare Matteo Berrettini nel torneo dove segnò il suo primo exploit Slam, e osservare le prestazioni degli altri italiani, c’è grandissima attesa per i due tennisti più caldi dell’anno, recenti finalisti a Cincinnati: Novak Djokovic e Carlos Alcaraz. Dopo quella bellissima di Wimbledon, molti si aspettano (o sperano) di poter assistere ad un nuovo capitolo di questa rivalità. Alcaraz sarà chiamato a difendere il titolo conquistato a Flushing Meadows lo scorso anno, suo primo Major in carriera, grazie al quale ha stabilito anche il record assoluto di n.1 ATP più giovane. Tuttavia per pochi giorni non è stato il campione di US Open più precoce. Approfittiamo dell’avvicinamento al torneo della “Grande Mela” per andare a scoprire i 10 vincitori più giovani a New York.

    1. Pete Sampras – 1990 – 19 anni e 15 giorni
    Pete Sampras vinse a New York il primo dei suoi 14 Slam, appena dopo aver compiuto 19 anni, sconfiggendo in finale Andre Agassi (6-4 6-3 6-2). Il successo del campione californiano arrivò a sorpresa, perché nella super covata di talenti a stelle e strisce di quell’epoca era più atteso un successo di Agassi, che invece arriverà solo a Wimbledon 1992, e anche dopo il primo Slam di Jim Courier. Sampras ha tenuto il record di più Slam vinti nell’era Open fino al 2009, quando Roger Federer toccò quota 15 a Wimbledon. Fu una cavalcata impressionante quella di Sampras a US Open 1990: della dodicesima testa di serie, Pete sconfisse Ivan Lendl nei quarti di finale, John McEnroe in semifinale e Agassi in finale, con un servizio mai così efficacia. Il marchio di fabbrica di una carriera straordinaria.

    2. Carlos Alcaraz – 2022 – 19 anni, tre mesi e 24 giorni
    Che Alcaraz fosse un predestinato era chiaro già da tempo, ma in pochi pensavano che il suo primo Slam sarebbe arrivato sul cemento. Sensazione questa fin troppo figlia di quella assonanza con Nadal che, in realtà, non ci azzecca più di tanto. Proprio a New York “Carlito” si rivelò al mondo con una bella cavalcata nell’edizione precedente (2021). Il fantastico 2022 di Alcaraz è culminato con il suo primo Slam a US Open, grazie alla soffertissima vittoria su Sinner nei quarti e quindi con la finale vinta su Casper Ruud (6-4 2-6 7-6(1) 6-3 lo score). Un titolo che gli regalò anche la prima posizione del ranking mondiale e il record di tennista più giovane a sedersi sul trono del tennis maschile. Netta la sensazione che quello 2022 sia solo il suo primo titolo a New York.

    3. Lleyton Hewitt – 2001 – 20 anni, sei mesi e tre giorni
    Questi “maledetti giovani…” Forse questo avrà pensato Pete Sampras dopo esser stato di nuovo nettamente sconfitto nella finale di US Open, dopo la batosta rimediata nel 2000 dall’altrettanto giovane Marat Safin. Lleyton Hewitt nel 2001 rimandò il quinto titolo nel torneo di casa per Pete Sampras, successo che arrivò nell’anno successivo. Hewitt sconfisse Sampras per 7-6(4) 6-1 6-1 in quello che fu il suo primo titolo Slam. “Rusty” è l’ultimo australiano ad aver vinto uno Slam (Wimbledon 2002).

    4. John McEnroe – 1979 – 20 anni, sei mesi e 12 giorni
    Un giovane e riccioluto John McEnroe alzò nella sua amatissima città il primo Slam in carriera, lanciandosi nell’Olimpo della disciplina. Con questo successo sorpassò il connazionale (e mai amico) Jimmy Connors in cima alla lista come il più giovane vincitore agli US Open, battendo in finale Vitas Gerulaitis (7-5 6-3 6-3 lo score). L’americano duellerà contro Borg in iconiche partite e vincerà altri sei tornei del Grande Slam in carriera, dominando la stagione 1984. Poi, la luce si spense.

    5. Marat Safin – 2000 – 20 anni, sette mesi e un giorno
    Nuovo secolo, nuovi campioni. Marat Safin impressionò il mondo della racchetta disputando un grande torneo e soprattutto brutalizzando in finale il super campione a stelle strisce Pete Sampras, battuto per 6-4 6-3 6-3. Il punteggio non rende l’idea di quanto il servizio di Sampras – forse il singolo colpo più forte della storia del gioco – sia stato disinnescato dalla risposta del russo. Marat alzò il suo primo Slam in carriera, diventato il secondo russo a vincere un Major dopo Yevgeny Kafelnikov. Peccato che il moscovita non riuscì esattamente a sfruttare a pieno il suo grande talento negli anni seguenti.

    6. Juan Martin Del Potro – 2009 – 20 anni, 11 mesi e otto giorni
    Quella 2009 fu un’edizione passata davvero alla storia, per molti motivi. Roger Federer puntava al record del sesto titolo consecutivo agli US Open, ma in finale si è imbattuto nell’argentino Juan Martin del Potro, che aveva estromesso Nadal in semifinale. Federer scese in campo mostrando la sua enorme classe, stava letteralmente volando, annichilendo un giovane argentino alla sua prima finale Slam. Avanti di un set e di un break, forse Roger per la prima volta in carriera peccò di superbia, o almeno, cercò una serie di colpi fin troppo spettacolari e difficili, provocando una reazione mentale di DelPo. L’argentino si scrollò di dosso ogni pressione, forse perché pensava di non poter rimontare, e iniziò a colpire diritti di una violenza inaudita. Le sue palle non uscivano più, rimontò Roger e vinse una finale ancora ben impressa nella memoria degli appassionati. JMDP trionfò per 3-6 7-6 (5) 4-6 7-6 (4) 6-2, in quello che purtroppo resterà il suo unico Major in carriera. Infortuni e peripezie continue l’hanno bloccato all’infinito. È stato l’unico Grande Slam che i Big Four (Federer, Nadal, Djokovic e Murray) non sono riusciti a vincere tra gli Australian Open del 2005 e gli Australian Open del 2014. Quando si dice “compiere un’impresa”….

    7. Andy Roddick – 2003 – 20 anni, 11 mesi e 26 giorni
    Quell’anno il tennis stava svoltando, Andy Roddick fu scaltro e rapido a vincere il suo primo e unico titolo del Grande Slam, battendo Juan Carlos Ferrero 6-3 7-6 (2) 6-3, appena prima della definitiva esplosione di Roger Federer, che da gennaio 2004 dominò il tennis per alcune stagioni. Andy rimane l’ultimo americano ad aver alzato la coppa di uno Slam. Se nessun connazionale farà il miracolo al prossimo US Open, saranno passati 20 anni senza vincitori Slam a stelle e strisce. Impossibile a quell’epoca immaginare una situazione del genere.

    8. Boris Becker – 1989 – 21 anni, nove mesi e 6 giorni
    Il nome di Boris Becker resterà per sempre legato a Wimbledon, dove nel 1985 il tedesco alzò il suo primo Slam a soli 17 anni, sette mesi e due giorni, restando tutt’ora il più giovane campione major di sempre. Tuttavia il tedesco è stato anche un giovane vincitore a New York nell”89, quando sconfisse in finale Ivan Lendl per  7-6(2) 1-6 6-3 7-6 (4). Becker resta l’ultimo tedesco ad aver vinto il titolo degli US Open (Stich si arrese ad Agassi in finale nel ’94, Zverev a Thiem nel 2020).

    9. Jimmy Connors – 1974 – 21 anni, 11 mesi e 26 giorni
    Quando quasi 50 anni fa Jimmy Connors sconfisse l’australiano Ken Rosewall nella finale degli US Open del 1974, divenne il giocatore più giovane a vincere il titolo a New York. Connors impiegò poco più di un’ora per battere l’ormai anziano Rosewall con il punteggio più severo mai visto nella finale del torneo: 6-1 6-0 6-1. Fu un’annata straordinaria per “Jimbo”, con i successi anche a Wimbledon e Australian Open.

    10. Roger Federer – 2004 – 23 anni e 22 giorni
    Grandissimo campione, ma non così precoce rispetto a diversi suoi colleghi. Nel 2004 Roger Federer due mesi dopo aver vinto il secondo titolo a Wimbledon, alzò il suo primo trofeo agli US Open, dominando Lleyton Hewitt in finale (6-0 7-6(3) 6-0 il netto score). È stato il primo di cinque titoli consecutivi per Federer a New York, imbattuto nel quarto Major stagionale fino al 14 settembre 2009, quando fu sorpreso dalla potenza di Juan Martin del Potro.

    Marco Mazzoni LEGGI TUTTO

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    Marat Safin a ruota libera. Il russo parla di diversi argomenti: Medvedev e Rublev e poi sul suo ritiro “Ho sempre pensato che sia meglio lasciare lo sport prima che lo sport ti abbandoni”

    Marat Safin ex n.1 del mondo

    L’ex tennista russo Marat Safin ha rilasciato un’intervista a Go Tennis dove ha parlato di tutti gli eventi attuali del mondo del tennis, evidenziando la grande crescita dei giocatori russi in questa stagione, soprattutto di Daniil Medvedev e Andrey Rublev. Inoltre, Marat Safin ha confessato i motivi per cui ha deciso di ritirarsi dal tennis nel 2009.
    -L’importanza di giocare le Finals ATP:“È uno dei miei tornei preferiti. Gli otto migliori giocatori dell’anno si battono per vedere chi uscirà con il trofeo in mano e un sacco di soldi in tasca. Le Finals ATP sono considerate uno dei tornei più prestigiosi del calendario. Quando si perde una partita in un torneo, si va dritti a casa, mentre qui si ha ancora la possibilità di lottare per entrare in semifinale. Sono arrivato in semifinale due volte, ma in entrambe le occasioni ero fisicamente morto. Il fatto di aver giocato molte partite durante tutto l’anno mi ha penalizzato quando si è trattato di competere in questo torneo.”
    -Perché ha deciso di ritirarsi dal tennis?“In questo sport, o sei nella top five o non vai da nessuna parte. Non volevo continuare a giocare a tennis come il numero 11, 12 o 20 del mondo. Giocare con giocatori più giovani, stancarsi e correre con un ginocchio molto dolorante è semplicemente screditare se stessi. Ho sempre pensato che sia meglio lasciare lo sport prima che lo sport ti abbandoni. Se il ginocchio non mi avesse dato tanto fastidio, probabilmente avrei giocato un altro paio d’anni, ma non l’ho fatto. Ero stanco di questo mondo.Ero annoiato e dopo diversi anni posso dire di aver chiuso con il tennis. Non avevo alcuna motivazione e ho iniziato a perdere contro alcuni tennisti sconosciuti. Se non riesci più a vincere con tennisti come Federer, Nadal o Djokovic, allora cosa ci fai lì?

    -La crescita di Daniil Medvedev:“Una persona quando cresce, diventa più saggia e capisce quali cose deve togliere dalla sua vita. Medvedev ha una tecnica piuttosto interessante. Sa di avere molte opzioni per poter fare grandi cose in questo sport. Nella ATP Cup sono riuscito a stare con lui. Ho avuto modo di conoscerlo meglio ed è davvero un ragazzo fantastico. L’ho aiutato molto a giocare meglio a rete. Se vuoi competere con i grandi, devi aggiornare un po’ di più il tuo gioco. Altrimenti ti perdi.
    -L’anno di Andrey Rublev:“Andrey ha ancora una mentalità da Junior. A cosa sono servite le sue vittorie quest’anno? A Niente. Ha vinto cinque tornei in questo 2020, ma nessuno di questi è stato Masters 1000 o Grand Slam. Novak Djokovic ha vinto meno tornei e ha finito l’anno come numero uno al mondo. Rublev deve cambiare e saper giocare meglio nei tornei più importanti. È un buon tennista che può competere e battere i migliori, ma deve competere nelle semifinali o nelle finali del Grand Slams. Se vuoi essere al top, devi giocare questo tipo di incontri. Un’altra cosa da aggiungere, è che Andrey deve imparare a non rompere in situazioni complicate. Il tennis è uno sport che non consiste solo nell’imparare a colpire la palla, ma anche nel sapere uscire da una situazione complicata”. LEGGI TUTTO

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    Open Court: 20 anni fa Safin divenne n.1. La storia di Marat, bello e impossibile (di Marco Mazzoni)

    Marat Safin

    20 novembre 2000. Venti anni fa. Il mondo era un tantino diverso da quello attuale. Non avevamo ancora vissuto lo shock dell’“11 settembre”, gli smartphone ed i social network non avevano ancora invaso il nostro quotidiano, delle pandemie ne parlavano solo i libri di scuola, al passato. Il mondo della racchetta intravedeva in Roger Federer un talento immenso, ma lo svizzero era ancora un progetto di campione, mentre Rafa e Novak erano solo dei giovanissimi impegnati nei tornei under. Il 20 novembre 2000 è una piccola data storica nel mondo della racchetta: Marat Safin divenne n.1 della classifica mondiale. Restò per poco in vetta al ranking, giusto due settimane, per poi tornarci un paio di volte l’anno successivo, per un totale di nove. Il russo ha vinto “solo” due Slam, qualche Masters 1000, e una Davis. Un palmares importante, ma non così impressionante. Eppure pochi tennisti dell’epoca moderna hanno lasciato un segno così profondo, direi indelebile, appassionando milioni di fan in tutto il mondo, che lo ricordano con affetto e rimpiangono le fortissime emozioni vissute assistendo i suoi match.
    Approfittiamo di questa ricorrenza per un ricordo del grande talento russo, uno dei giocatori più affascinanti e controversi degli ultimi anni.

    Croce e delizia, spettacolo e disastri, rabbia e rimpianti. Bello e impossibile, per altri insopportabile. Sbruffone, “piacione”, pigro e arrogante. Delizioso e talentuoso, indolente e rissoso. Spettacolare. Molti, fin troppi, sono gli aggettivi con cui possiamo ricordare il gioco, il talento, la carriera e la personalità di Marat Safin. Quale Safin? La macchina da guerra che annichilì Sampras? Il furibondo spacca racchette? O peggio ancora “l’ex giocatore” che resta docile in un angolo accettando la sconfitta dal carneade di turno, anzi, regalandogli un pomeriggio di notorietà? Raccontare la storia di Marat è un’impresa mica facile. È necessario addentrarsi nella vita del tennista più intricato ed intrigante degli ultimi anni. La strada è perigliosa perché linearità e raziocinio non saranno mai presenti nel racconto di questo bizzarro personaggio. Non vincente quanto Roger, non consistente quando Nadal, ma che fascino…
    Marat Safin, classe 1980, vive nella natia Mosca i primi anni di vita già con la racchetta in mano. Figlio di Misha Safin, gestore di un piccolo tennis club con la moglie Rausa Islanova, severa maestra di tennis e primo coach di Marat e della sorellina Dinara, il piccolo Marat prende sul serio il tennis a sei anni, almeno la storia ufficiale questo racconta. Cresce più o meno serenamente a Mosca, ma ancora siamo alla prima Russia “libera”, manca di tutto. Il padre pare che a volte trovi con difficoltà delle palle da tennis accettabili per sostituire quelle usurate, per non parlare delle corde.
    Anni non facili economicamente, tirare avanti è faticoso, così che sfondare nel tennis non è solo un sogno, piuttosto una necessità. Il passo, quello grande, lo compie da teenager, quando decide tredicenne (d’accordo con la mamma, che a strappi ha guidato buona parte della sua carriera, spesso da lontano) di muoversi in Spagna per provare a diventare un campione, visto che il talento abbonda nel suo DNA. Non è un periodo facile, perché il passaggio dalla fredda e caotica Mosca del post-comunismo alla solare e colorata Valencia è uno shock. E plasma di brutto la sua personalità.
    Marat è uno con la testa dura, caparbio e poco incline a chinare il capo, in campo e fuori. Anche per pigrizia nell’imparare la lingua non riesce a farsi capire in Spagna, tanto da meditare un rientro a casa dopo pochi mesi. Sgomita tutto il tempo, e solo un coach navigato a paziente come Rafael Mensua, che in lui vede un talento fuori dal comune, lo imbriglia in routine di lavoro “relativamente stabili”. Il talento è unico. Questo ragazzone dai piedi pesanti colpisce la palla con la violenza di un pugile e la precisione di un killer, però c’è tanto, tanto da fare. L’umiltà in campo non sa nemmeno cosa sia, la disciplina nella vita e nel lavoro idem, ancor più con la dolce “movida” spagnola che lo circonda, una Sirena irresistibile per un ragazzo che ama “vivere” come lui. Grattacapi infiniti, notti insonni (Marat per la nostalgia di casa, ebbene sì, o perso nei locali; Mensua per il classico “ma chi me l’ha fatto fare?”), ma alla fine il botto c’è, e bello vigoroso.
    Da junior non è un blockbuster. Si fa conoscere al mondo all’edizione 1998 del Roland Garros, dove questo marcantonio con racchetta infila un filotto clamoroso: da n.116 ATP passa le dure qualificazioni parigine, beccandosi Agassi al primo turno, uno dei suoi idoli. Una grandinata di pallate investirà Andre, che scuotendo il capo pensa che la coppa dei Moschettieri non sarà mai sua (un anno Andre, e poi il tuo sogno sarà realtà). Non contenta, la malasorte (punti di vista) gli offre il campione in carica Guga Kuerten, che viene ugualmente maltrattato dal treno russo. La sua corsa si ferma agli ottavi, ma il nome di Marat Safin si impone come quello del talento più devastante visto su di un campo da tennis dai tempi della covata magica USA Agassi-Courier-Sampras. La crescita però non è impetuosa, si nota immediatamente che questo Marat è un cavallo di razza, ma è alquanto bizzarro. Atteggiamenti rudi, a volte brutali in campo, cali di tensione continui, giocate mozzafiato e pause inspiegabili.
    Un episodio che ci riguarda da vicino spiega tante cose. San Marino, l’avversario di un giovane Marat è Vincenzo Santopadre, bravissimo ragazzo e tennista dalla mano straordinaria, ma un po’ leggero come gioco e consistenza; come si spiega il quasi cappotto che il romano riesce ad infliggere a Marat, aggravato da uno warning dell’arbitro per scarso impegno? Inglorioso, tanto che se ricordate al russo questa giornata, il buon Marat si inalbera tutt’ora… Di episodi simili e pagine nere la sua carriera ne vivrà più d’una; ma anche tanti pomeriggi, e soprattutto serate nei palazzetti indoor dove Marat ha dato il suo meglio, partite in cui vederlo giocare è stata un’esperienza indimenticabile.

    Talento unico
    Pochissimi tennisti sono riusciti a produrre un tennis così potente ma allo stesso tempo di talento. Non solo mazzate brutali, ma colpi ricchi d’anima, di quella drammatica ed intrigante indole tutta russa che li fa esser uno dei popoli più affascinanti e allo stesso tempo incomprensibili. Chi intravide nella potenza di Marat un tennis disumano, capiva ben poco di questo sport. La finale degli Us Open 2000, proprio quella in cui Marat demolì Pete Sampras a casa sua, resta una delle più grandi dimostrazioni di tennis totale mai viste nell’era moderna. Mai in carriera Sampras ha subito in una finale un simile trattamento. Annientato.
    Quello resta uno dei due match capolavoro della carriera di Safin, insieme alla semifinale degli Australian Open 2005, quando sconfisse un Federer al top 9-7 al quinto set. Nella finale di New York 2000, Safin affrontò Sampras dominandolo in tutti i settori del gioco. Servì in sicurezza, dritti e rovesci precisi e potenti, e soprattutto schiantò Sampras al servizio grazie ad un’ora e mezza di risposte che nemmeno il miglior Agassi era mai stato capace in carriera di produrre contro Pete. Marat toccò dei picchi di gioco poche volte sfiorati nella storia recente del tennis.
    E come fai a spiegare al ragazzino che appena lo conosce, che questo immenso talento abbia vinto una miseria di grandi tornei? Non è facile. Forse impossibile. E se lo chiedi a Marat, la sua risposta sarà un sorriso complice, della serie “It’s my life, baby”. Genio e sregolatezza, questo abusato cliché calza a pennello al nostro eroe, il tennista che ha vinto di meno negli ultimi anni in rapporto all’immensa magia del suo braccio.
    L’ultimo Safin che ricordo al top fu quello di un gelido (per noi) venerdì di gennaio, anno 2005. Melbourne il luogo del delitto: Safin sfida il “cannibale” Federer nella semifinale degli Australian Open. Match clamoroso, tecnicamente il migliore che io ricordi da quel giorno, uno dei migliori di sempre. Marat doma quello che è considerato “il migliore” dell’era Open con un 9-7 al quinto, annullando un match point e giocando con classe e continuità tennis stellare per potenza, precisione, varietà di soluzioni. Dove Safin vinse il match? Difficile trovare una sola chiave nell’epica impresa; l’efficacia del servizio fu determinante, non tremò mai il suo braccio al momento di recapitare Ace o servizi vincenti. Nello scambio quello che “matò” Federer fu certamente il rovescio del russo. Sempre consistente nella diagonale, con una palla lunga e potente che non ha mai permesso a Roger di governare lo scambio con le sue magiche mezze volate in anticipo. Alla consistenza aggiunse in dose industriale il colpo del miglior Safin: il cambio improvviso col rovescio lungo linea. Grande appoggio coi piedi, Marat arrivava bene sulla palla, raccolto; apertura breve con la racchetta dietro e via, per un’accelerazione composta, quasi rannicchiato, con la racchetta che non si allontanava dal corpo nello swing, per un impatto imperioso per timing e potenza. Un lampo, un attimo, con la palla che scappava velocissima e retta, cambiando direttrice e filando lungo linea con un sibilo mortale per il rivale; anche un certo Roger Federer nel climax della sua efficacia. Gesto di una bellezza da Michelangelo del tennis, per quella forza carica di grazia sportiva. Difficile per un comune mortale infrangere le leggi della fisica, che ti fanno scappare larga la palla, ma non per Safin. Il controllo dimostrato da Marat in tale situazione è quasi misterioso, e quel venerdì sera di quindici anni fa pizzicò spesso il campo scoperto da Roger. E così molte altre volte, nelle serate giuste.
    Tuttavia non si può inquadrare Marat solo in questa esecuzione, perché il russo (quando decideva di giocare al suo meglio, s’intende) possedeva una tecnica praticamente perfetta in tutte le situazioni di gioco. Un dritto micidiale per potenza, soprattutto in cross; una sensibilità nei pressi della rete di prim’ordine, un servizio devastante; una risposta che nella finale degli Us Open 2000 fece apparire il servizio di Sampras (sì, proprio il colpo che ritengo più decisivo nella storia del tennis) quello di un carneade. Quando Marat girava a tutta, produceva un tennis da numero uno, e che numero uno. Peccato che ci abbia regalato solo alcune perle di quel valore assoluto, in mezzo a troppi pomeriggi grigi, nebbiosi o rabbiosi, passati alla storia per sceneggiate da attore di provincia. Furia autodistruttiva, una testa “ballerina”, troppo distratto da mille cose, donne e non. Nel tennis moderno (già quello di Marat), imbruttito da materiali così performanti da far prevalere la forza alla grazia, la potenza senz’arte alla tecnica, il livello medio è così agguerrito ed il lato fisico del gioco così importante che un braccio baciato dagli Dei non è più sufficiente, anche se ti chiami Marat Safin.

    Genio e sregolatezza
    Marat è entrato nella storia del nostro sport, ahimè, più come clamoroso tombeur de femme, come rockstar con racchetta, che per le coppe alzate al cielo. Non si contano le fiamme che l’hanno acceso, in tutti gli angoli del mondo. Iconico il vezzo machista sventolato ai quattro venti in una ormai “mitica” conferenza stampa di qualche anno fa: “Mai pagata una donna per venire nel mio letto, più facile che potesse accadere il contrario …o che abbia pagato per mandarla via”, un po’ rozza nella sostanza, ma in pieno Safin style, quindi genuina, perché lui è stato sempre vero, limpido. Eccessivo sì, bugiardo mai. Passò alla storia la battuta di David Nalbandian, che lagnandosi a Monte Carlo per esser stato messo in campo alle 10 di mattina, se ne uscì con un’acida battuta: “Non mi possono mettere in campo alla ora in cui Marat rincasa dalla discoteca….”. Per non parlare delle notti bollenti a Tashkent, dove con Kafelnikov non aveva altro che l’imbarazzo della scelta tra le starlette di casa… Vodka, ragazze, anche amicizie non proprio ortodosse, tanto che nella natia Mosca è stato coinvolto in qualche rissa, rimediando anche un occhio nero poco prima di un torneo. Gli aneddoti dei suoi anni migliori sono più delle sue vittorie, come l’indimenticabile “Family”, ossia le tre “biondone” che l’hanno accompagnato in tribuna durante la sua campagna all’Australian Open 2002, quando giocò un torneo perfetto sino alla finale contro Thomas Johansson, svedese nemmeno dei più forti, eroe per un giorno grazie a Marat. Il russo prese totalmente sottogamba quel match, trascinato in finale da un talento irreale ma poi finendo per giocare l’incontro decisivo in modo terribile, passando da sbruffone a gattino impaurito e masticando poi amarissimo all’ennesima, bruciante, sconfitta.
    Eppure il suo istinto un po’ rozzo nasconde un cuore da bravo ragazzo, non troverete mezzo collega tennista che vi parlerà male di lui. Perché Marat è genuino al 100%. Preferisce tirarti un pugno in faccia e poi invitarti a bere una vodka piuttosto che sparlare di te alle spalle. Contagiosa la sua simpatia, contagioso nel suo mostrarsi nudo e crudo, ammettendo anche i tanti sbagli di una vita vissuta sempre premendo sull’acceleratore e, soprattutto, non rimpiangendo mai nulla.
    Uno degli episodi più bizzarri fu quando partì per il Tibet, convinto di poter scalere una vetta da 8000 metri, senza un allenamento specifico. Arrivato a quota 5000 metri, dove inizia l’ultima fase di acclimatamento, fu preso da terribili mal di testa per l’altura. Macché pillole, pare che solo un buon whisky riuscisse a lenirgli i dolori, forse per abitudine. Fece i bagagli e tornò indietro sconfitto dalla montagna, ma dichiarò di aver conosciuto gente incredibile, e che una volta smesso di giocare avrebbe viaggiato un bel po’, conoscendo gente e paesi nuovi, come Sud Africa, Messico, Nuova Zelanda.

    Il declino, testa e infortuni
    Verità, esagerazioni. Vero che Safin ha buttato al vento buona parte della sua carriera per troppa “bella vita”. Ma c’è anche dell’altro. Marat è stato influenzato pesantemente da una sensibilità spiccata e da una personalità controversa, spesso celata da atteggiamenti da sbruffone nel classico “giocarsi contro”, creandosi alibi per la disfatta. Un po’ piagnone, incarnando quel non so che di uomini perdenti dall’indole tutta russa, uomini profondi e mai banali, arrovellati in pensieri autodistruttivi. Una sensibilità ed intelligenza mal sfogata in esplosioni che mascheravano un coprirsi a riccio, per difendersi dalle proprie mille insicurezze.
    Testa e non solo. Le tante sconfitte di Safin e i suoi lunghi periodi “off” sono quasi sempre stati archiviati con la sua indole non proprio professionale. In realtà, quel ragazzone russo ha anche sofferto di una miriade di infortuni, anche per colpa di corpo imponente e non sempre ben allenato a resistere alle terribili sollecitazioni del tennis moderno. Solo fino al 2003 non ha patito importanti infortuni. Da lì in poi, troppe volte il fisico gli ha presentato il conto, con infortuni più o meno seri ma che l’hanno molto limitato. L’inizio della sua fine è arrivato quando Marat ha perso fluidità. Negli ultimi anni divenne un tennista troppo rigido, tanto da passare dall’essere un formidabile costruttore di gioco con mano fatata a energumeno “tira-pallate”, senza quella capacità di accompagnare il colpo che invece ad inizio carriera era incredibile per coordinazione, tecnica e tempismo. Risultato? Una pallata tirata ad occhi chiusi ti può entrare, magnifica, di rabbia. Ma una sola, o poche, sporadiche. Al Safin d’annata uscivano fucilate d’autore; da metà 2005 divenne un tennista da grande impresa, senza continuità. Indoor, dove si esalta il tennis più tecnico, ha continuato a regalare perle d’autore. Serate bellissime.
    Oltre ai problemi fisici, mai è riuscito a tenersi un buon coach, per mantenere un indirizzo vincente e una routine “sportiva di alto livello”. Solo con Chesnokov al fianco s’è visto qualche miglioramento tattico, ma l’incantesimo è durato pochi mesi. Inoltre fu un errore lasciare il preparatore atletico Landers (poi morto prematuramente per un tumore al cervello), che guarda caso lo tirò a lucido nell’autunno 2004 portandolo al successo a Melbourne l’anno seguente. Poi è calato il sipario sulla sua preparazione fisica, con importanti problemi alla schiena ed un ginocchio. Non è un caso che proprio sull’erba Wimbledon 2008 (sì, quella che dichiarò “adatta alle vacche” facendo inorridire i sudditi di Sua Maestà…) sia venuto il suo ultimo exploit (semifinale): la superficie più soffice lo facilitava negli appoggi, da sempre fondamentali affinché potesse scaricare a terra l’enorme potenza del suo fisico.
    Vedi il palmares di Safin e leggi solo 2 titoli dello Slam e la Coppa Davis, oltre a molte finali perse e varie occasioni mancate. Marat ha gestito male il periodo di interregno tra Sampras e Federer, proprio quando fece una breve apparizione sul trono ATP, secondo russo nella storia dopo Kafelnikov. Quello fu il momento di Hewitt, incredibile agonista ma con mezzi nemmeno paragonabili a quelli del Safin ventenne, ancora sano sul lato fisico. Se Marat deve recriminare qualcosa nella sua carriera, è non aver approfittato di quel momento storico, in cui poteva infilarsi e sfruttare al meglio il suo talento. È un delitto che Marat non sia stato il terzo incomodo dalla nascita della rivalità Roger-Rafa a metà anni 2000. Aveva tutto quel che serve per ricoprire, alla grande, quel ruolo.
    Safin ci ha regalato sprazzi di grande tennis ed intense emozioni, nel bene e nel male. Di sicuro da quando ha appeso la racchetta al chiodo il tour ha perso uno dei talenti e personaggi più intriganti degli ultimi anni.
    Marco Mazzoni LEGGI TUTTO

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    Per Youzhny e Safin il prodotto WTA non è appetibile

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