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    Challenger di Torino, un poker azzurro

    Luciano Darderi

    Qualcuno, un po’ in là con gli anni ma con la memoria ancora buona, guardando lo stato d’avanzamento lavori del Challenger 175 di Torino, ha commentato: “Oh, sembra d’essere tornati ai tempi belli degli “Assoluti”. Ma ti ricordi come giocavano i nostri?”.In effetti gli unici, grandi protagonisti del torneo giocato sui campi del Circolo della Stampa Sporting, oltre alla pioggia che ha imperversato tutta la settimana e che a un certo punto ha fatto temere il peggio, sono stati alcuni giocatori italiani.D’accordo, speravamo che qualcuno dei nostri fosse protagonista al Foro Italico, nell’edizione 2024 degli Internazionali d’Italia, però alla fin fine il Challenger torinese, complici alcune fuoriuscite anzitempo, ha messo in campo un seeding da far invidia a un “250” e se i nostri sono stati tra i principali attori è davvero un bene.Intanto c’è da dire che nessuno è salito a Torino con l’idea di “fare cassa”: quante volte abbiamo visto giocatori di prima fascia concedersi a palcoscenici minori e sciogliersi dopo pallide esibizioni?
    Qui non è successo. Musetti l’ha dichiarato subito che dopo la sfortunata parentesi romana, martoriata da un virus, aveva bisogno di giocare e vincere match. Anche brutti e sporchi, per poter ritrovare fiducia e convinzione. E ha cercato di non lasciare niente per strada.Accompagnato da Corrado Barazzutti, “Muso” è sembrato meno tormentato rispetto a quanto non sia apparso negli ultimi tempi: più sereno. Consapevole di ciò che occorra fare per ritrovare il tennis che gli ha concesso di salire a numero 15 del ranking ATP giusto un anno fa. Sa che giocando sul rosso deve smettere di perdere campo, di allontanarsi troppo dalla riga di fondo, in quella zona che gli consente un comfort maggiore nel trovare la palla sulla diagonale di rovescio – vista l’ampia apertura – ma che lo induce a giocare in modo eccessivamente passivo, cosa che non può e non deve essere nella sua natura.Nonostante Barazzutti fosse impegnato a cercare di far proseliti nella sua avventura da candidato presidenziale alla prossime elezioni FITP, s’è visto come ci si sia applicati nella rimodulazione di alcuni particolari legati al servizio e al dritto di Lorenzo. Dove alcune migliorie potranno portare Musetti è presto per dirlo e, come “Muso” ha detto in conferenza stampa, se in questo momento si vuole attuare un paragone tra lui e Sinner si è completamente fuori strada. Siamo su piani diversi, su strade per ora non percorribili. Tutto ciò che è successo a “Muso” in questo ultimo anno ha complicato prospettive e ingigantito problemi e ansie: per ritrovare il miglior Lorenzo ci vogliono calma, pazienza, lavoro e poi ancora lavoro. Il fatto che Musetti ne sia ora assolutamente consapevole e non vada alla ricerca del tempo perduto è la migliore delle notizie.
    Chi invece si sta avvitando su se stesso e fa fatica a uscire dal vortice in cui s’è cacciato è Lorenzo Sonego. “Sonny” giocava sui campi di casa, davanti al suo pubblico, dopo la separazione dal suo storico coach Gipo Arbino. Il rapporto con Gipo è davvero un rapporto padre-figlio, e anche nella migliore delle storie, anche se alla base c’è un indiscusso amore, viene un momento nella vita in cui i figli crescono e…vogliono “uccidere” il padre. “Sonny” è diventato grande, si trova nella terza fase della sua carriera, quella che prelude alla china discendente, normale che abbia cominciato a smaniare, ad avere dubbi dopo diciotto anni di rapporto con Arbino. Troppo presto per dire se sia un bene o un male ciò che sta ora facendo con Colangelo, però non si può fare a meno di sottolineare come Lory appaia ora meno sereno, che sia tornato a colpire di rovescio “old style” rimarcando l’errore che commetteva e commette col braccio sinistro, prova ne sia che chiamato a scambiare sulla diagonale di sinistra, tranne rare occasioni e soluzioni in back, raramente passa la metà campo. Difficile giocare così.Dopo aver ceduto inspiegabilmente un set a Federico Coria, un Coria che è lontano parente di suo fratello e tira veramente piano, nei quarti per Sonny con JJ Wolf è stato tutto facile, perché l’americano giocava “al contrario” sfidando Sonego sul dritto. In più l’americano è scoppiato dopo quattro games, ha pagato le fatiche fatte con Luca Nardi – un Nardi che si è letteralmente mangiato la partita…- e tutto è filato via, liscio come l’olio. Altra musica, tutta un’altra musica in semifinale contro Francesco Passaro, che l’ha schiantato.
    Confortato dal terzo turno raggiunto a Roma, in totale fiducia, Passaro ancora una volta ha reso palpabile il mistero di come uno che giochi così, nel giro di un anno o poco più, sia passato dall’essere 108 al mondo a ritrovarsi alla 240° posizione mondiale. Mistero tanto non è perché il perugino è stato massacrato da problemi alle caviglie che gli hanno impedito di esprimersi come sa. Però faceva davvero male vederlo oltre i 200. Francesco tira davvero forte e ha fondamentali di tutto rispetto. Per buona aggiunta ha pure una “garra”, una voglia di lottare con pochi eguali. Sempre molto ordinato nelle scelte, quando riesce a istradare il macth su frequenze che gli aggradano, diventa uno che fai fatica a togliertelo di torno. Se ne sono accorti giocatori che proprio sprovveduti non sono, come Galan, Ruusuvuori, reduce da una incredibile battaglia con Seyboth Wild, e poi Nakashima, che non è che sulla terra giochi poi così male. Passaro, prima di demolire in semifinale Sonego, ha dimostrato come le sue quotazioni siano in costante rialzo e come gli vada ancora stretto il rientro tra i primi 150: il Francesco attuale vale molto molto di più.
    Chi a Torino ha davvero impressionato, tanto da diventare subito il beniamino del pubblico, è Luciano Dàrderi. L’italo-argentino, dal titolo di Cordoba in poi, non smette di stupire. È incredibile constatare quanti progressi “Luly” abbia fatto. Il rovescio bimane è diventato un’altra cosa e non fa più fatica a sostenere gli scambi da quella parte, anzi riesce pure a trovare traiettorie efficaci. Il back ha rotazione persino eccessiva, ma la velocità con la quale va sulla palla fa sì che la giocata sia tutt’altro che banale e di pura opposizione. Maschera benissimo la smorzata, che predilige giocare lungolinea, anche se il back spin esasperato a volte fa alzare troppo la parabola della giocata rendendola più leggibile, però è innegabile che il drop shot sia una delle giocate che predilige. Nonostante Luciano ami giocare di forza, e lo si evince da come gioca il dritto, accelerando deciso giusto poco prima dell’impatto, chiudendo stretto e basso, Dàrderi deve avere una gran mano se gioca con una tensione di soli 18 kg, usando un ibrido composto da un’ Alu Power 125 per le corde verticali e una Polytour Yonex per quelle orizzontali.“Luly” serve bene, fisicamente è forte e reattivo, difficile dire dove potrebbe arrivare, ma un posto attorno ai primi 40 del ranking li vale tutti già ora. Si professa italiano, ma è intimamente argentino dentro. Ha totale fiducia in quello che fa, e pur se manifesta ancora qualche lampo di immaturità è uno con cui non è facile fare i conti. Non era certo il miglior Arnaldi quello che Luciano ha incrociato nei quarti; Matteo è sembrato a tratti svogliato e non proprio a fuoco, ma quando la partita entra “in lotta” di cosa sia capace Dàrderi lo si capisce immediatamente: riesce a dare anche quello che non ha. Questa forse è la sua qualità migliore.
    Da Torino, Elis Calegari LEGGI TUTTO

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    Davis, 47 anni sono passati in un lampo e ora non sono che un ricordo

    Gaudenzi e Nargiso in Davis (foto FITP)

    Un po’ di tempo ce n’è proprio voluto. Di solito è per elaborare un dolore, un lutto che si cerca di frapporre giorni per lasciar decantare, per farsene una ragione. Questa volta, no. Questa volta è stato per elaborare gioia e incredulità che ho dovuto attendere per realizzare che sì, era proprio vero che dopo 47 anni l’avevamo finalmente rivinta la Coppa Davis. Ecchisenefrega se è una Davis che non è più la Davis d’una volta, signora mia, se è una Coppa dimezzata e ha perso il fascino d’antan.Dopo averne viste tante, attraversate altrettante, mi ero persuaso che in sempiterno le mani su quella che qualcuno continua a volerla vedere come “un’insalatiera” non le avremo più messe.Sì, la crescita esponenziale di Sinner, il poter contare su un gruppo finalmente coeso, speranze ne dava, ma l’aver perso Berrettini faceva sì che la coperta rimanesse sempre un po’ corta.E quindi… Sì, in fondo in fondo, ma proprio in fondo, il sogno di poter rivivere quella stagione magica che fu il ’76 c’era sempre, ma rimaneva sogno.La mia generazione, quella che è arrivata la tennis quando questo è diventato “pop” grazie alle gesta di Panatta , è cresciuta avendo nella Davis un caposaldo.Chi c’era, come fa a non provare ancora un fremito ripensando a quel pomeriggio in cui Adriano e Bertolucci fecero neri Newcombe e Roche, riducendo gli aussies a povere comparse. “Pasta Kid” volleava come nessuno al mondo, esibì colpi dietro la schiena e giravolte, mentre Panatta fu semplicemente incanto.
    La favola bella della “squadra” durò ancora qualche anno e si spense, a mio ricordo e avviso, a Praga, in un momento preciso: quando il più gaglioffo dei giudici di sedia non chiamò un secondo rimbalzo a Tomas Smid, condannando di fatto Panatta alla sconfitta, Panatta che aveva già conosciuto nel corso del match angherie e l’ineffabilità dei giudici di linea cecoslovacchi.Per me la favola si spense lì. Fossimo andati, come era giusto, sull’1 a 0 per noi, forse l’avremmo potuta rivincere la Coppa, ma così non fu e cominciò il nostro inesorabile declino.Pesco così a caso tra i ricordi, che vengono a galla come tortelli in un’acqua bollente e spumosa, e rivivo come un discreto incubo una figuraccia rimediata a Cervia nell’82 contro la Nuova Zelanda di Chris Lewis – che l’anno dopo avrebbe sì fatto finale a Wimbledon ma che sulla terra battuta non era proprio un fulmine di guerra – e ancora peggio quello che ci fecero Vilas e Clerc nei quattro singolari dodici mesi dopo al Foro Italico.
    L’era, la generazione di Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli era da tempo avviata al capolinea, si era fatta troppa fatica a capire e accettare che il tennis fosse cambiato, e dietro di loro s’era costruito poco o nulla. Francesco Cancellotti, fisico da paura, sembrava poter essere il “nuovo che avanza” ma, per mille problemi, durò poche e non sempre fortunate stagioni e così in Davis prendemmo a consolarci con parziali soddisfazioni, con Ocleppo che divenne “l’eroe di Telford” per aver portato alla causa due punti cruciali in un incontro indoor contro l’Inghilterra.Venne poi il tempo di Paolo Canè, ma dietro di lui c’era ben poco: Cancellotti presto sfiorito, Simone Colombo che, ad alti livelli, poteva quel che poteva, Claudio Panatta bravino mai del tutto bravo, tanto che a un certo punto, e lo dico con tutto il rispetto del mondo nei confronti di un più che onesto giocatore, la nostra punta più avanzata sembrò essere Massimiliano Narducci, mentre Iaio Baldoni, per qualche mese, parve la nostra risposta al tennis muscolare di Bollettieri.
    Anni grami, mitigati da una mezza bella figura fatta dai nostri a Malmoe contro la Svezia di Pernfors, dove nella prima giornata ci fu l’esordio vincente di Omar Camporese. Ma alla fin fin fine si lottava sempre e solo per…perdere bene, perché di più proprio non si poteva.Il nostro tennis versava in condizioni quasi disperate. Ricordo edizioni degli Internazionali con spalti semivuoti anche durante le fasi finali, coi campionati femminili esportati in Puglia e in Umbria: una roba tristissima. Tanto che a un certo punto la panacea di tutti i mali sembrò trovarsi nel riconvertire i campi da tennis in campi da calcetto.
    Furono pochissimi quelli che si ribellarono alla tendenza. Alberto Castellani continuò la sua mirabile e infaticabile lotta contro tutto e tutti a Perugia, mentre dalle parti del Po quello straordinario visionario di Carlo Bucciero, a Moncalieri, al Circolo Le Pleiadi, poco lontano da Torino, prendendo sotto la sua ala protettrice Riccardo Piatti e i suoi “boys” – Cristiano Caratti, Renzo Furlan, Federico Mordegan e di lì a poco si sarebbe aggregato pure il “quarto fratello” Cristian Brandi…- dette inizio alla cosiddetta “iniziativa privata” che nel breve volgere di pochissimo tempo avrebbe sconvolto come un turbine il sonnolento mondo tennistico italiano.
    Il presidente della FIT Paolo Galgani, appena eletto, s’era ritrovato, senza merito alcuno, la Coppa Davis tra le braccia e per anni avrebbe proseguito un’anemica politica di sviluppo, tanto da ridurre a poca cosa tutto il nostro movimento tennistico.A poco o nulla servì l’esperimento del Centro Tecnico di Riano, la famosa “cattedrale nel deserto”, e ancor meno incaponirsi nel voler contrastare i privati sino a volerli far scomparire e insistere su modelli che di evolutivo nulla avevano: scuola nazionale maestri con linee didattiche vecchie, nullo il supporto dato ai giocatori over 18…
    Ma il nuovo questa volta sì che stava avanzando. Carlo Bucciero e Riccardo Piatti insieme dettero una spallata significativa e ruppero gli schemi: da lì in avanti nulla sarebbe più stato come prima, visto che tutto il movimento prese a rialzare la testa e a proporsi come non era più abituato a fare.La vittoria del ’90 a Cagliari contro la Svezia, quando Canè battè Mats Wilander in un match memorabile, fu forse l’ultimo incontro del vecchio conio. E che si doveva cambiare lo capì capitan Panatta quando, per stessa ammissione sua, sbagliò nello schierare, nel turno successivo a Vienna, contro l’Austria di Thomas Muster e “Limone” Skoff , Diego Nargiso, evitando di riconsiderare Omar Camporese, rinato alla corte de Le Pleiadi sotto le cure di Piatti prima e Infantino poi, e di ascoltare chi gli proponeva di provare Furlan o Caratti.Ma carta cantava e di lì a poco Panatta dovette prendere atto del cambiamento, anche se “la bella stagione” de Le Pleiadi durò poco, soffocata da qualche errore e dal sistema, che ci mise tanto del suo. Esemplare fu come tolsero a Bucciero il Trofeo “Colombo”, grazie a una “sanzione atipica accessoria”, per punirlo d’aver ospitato e poi fatto competere ragazzi fuggiti dalla guerra balcanica tra i quali c’era un giovanissimo Ivan Ljubicic. La ridicola sentenza ce l’ho ancora in qualche cassetto.

    1993 World Group Quarter-final 📸
    The last time Australia & Italy played each other in #DavisCup ⏮️#DavisCupFinals pic.twitter.com/JjlmXCydbY
    — Davis Cup (@DavisCup) November 26, 2023
    (Italia vs. Australia nel 1993 a Firenze)
    Ci fu però il tempo di vedere un Camporese stellare in quel di Dusseldorf abbattere Stich e arrendersi poi di nuovo al quinto con Becker, come era già accaduto poche settimane prima agli Australian Open, giocando persin meglio di quanto fatto nell’epico match chiuso per 14-12 nel set decisivo; un Omar straripante, l’anno dopo a Bolzano, dare la più dura delle lezioni a Emilio Sanchez per due set e mezzo, godere dell’esordio di Caratti, prima che apparisse sul nostro cammino la triste spiaggia di Maceiò. Opposti al Brasile, su un campo realizzato sull’arenile, che più umido non si poteva, tornammo spezzati: Stefano “Pesco” Pescosolido finì per essere portato fuori dal campo incrampato dalla punta dei capelli sino agli alluci, prosciugato da un clima infame mentre stava lottando contro Oncins, e Camporese compromise così tanto il suo gomito destro che dovettero poi operarlo aprendogli l’articolazione, l’ortopedico dixit, “come un’arancia”. Da quel momento Omar non fu più il vero Camporese, anche se nel 1997 a Pesaro, contro la Spagna, ci regalò ancora una delle migliori versioni di se stesso, battendo praticamente da solo (con Furlan e Nargiso in doppio…) gli iberici. L’ultimo lampo targato Le Pleiadi fu la soddisfazione di vedere Cristian Brandi schierato a Palermo contro gli USA, ma, come detto “la bella stagione” era già volta al termine.
    Tutto però sembrava promettere finalmente bene, visto che all’orizzonte era apparso Andrea Gaudenzi, che per imparare il mestiere al meglio era approdato alla scuderia di Ronnie Leitgeb, mentore e manager di Muster.Il periodo di Gaudenzi in Davis ci vide più vicini al riprenderci la Coppa, ma per più d’un motivo il destino ce la negò sempre.Nel ’96 battemmo i Russi sul campo all’apparenza da loro preferito: giocammo fuori, nel gelo del Foro Italico in un febbraio ghiacciato. Vedere Renzo Furlan battere Chesnokov in una delle più gelide serate romane nel match decisivo, in condizioni oltre il limite, fu una goduria. Molto meno – ma ve lo ricordate?- vedere i nostri poi bistrattati dai giudici a Nantes: il seggiolone dell’arbitro strattonato da Panatta secondo me trema ancora adesso ed equivaleva, ai miei occhi, alla sedia sollevata da Mondonico ad Amesterdam: ribellarsi, seppur inascoltati, a una evidentissima, enorme ingiustizia.L’anno dopo raggiungemmo giustamente la finale contro la Svezia e chissà come sarebbe andata se il tendine della spalla di Gaudenzi non avesse fatto crack contro Norman… Anche questo boccone amaro, purtroppo, ce lo ricordiamo, eccome se ce lo ricordiamo.
    Da lì in avanti, nuovi anni grami col doversi accontentare sempre e comunque, con un cammino in Davis che si sapeva fin da subito che si sarebbe arenato presto.Ci toccò pure l’onta della serie C, perdendo dallo Zimbawe nel 2003.Qualche lampo qua e là dopo ci fu. Ricordo un Volandri battere Ivanisevic sul rosso del Foro Italico, Seppi sconfiggere Ferrero sulla terra battuta di Torre del Greco; l’esordio al cardiopalma del povero Federico Luzzi contro la Finlandia a inizio secolo, e poi tanta gente di buona volontà schierata in ordine sparso alla ricerca d’una quadratura difficile da trovare: Mosè Navarra, Vinz Santopadre, Giorgio Galimberti, Stefano Galvani, Alessio Di Mauro…Una presa di posizione, una querelle mal composta sottrasse a Simone Bolelli forse il suo tempo migliore come singolarista in Davis e dovemmo aspettare un po’ prima che il più talentuoso di tutti – ma anche il più balzano-, Fabio Fognini, ci regalasse un giorno da campione indiscusso in quel di Napoli schiantando in tre set capolavoro Andy Murray. Però, ripeto, erano vittorie molto parziali, perché ci mancava sempre ben più di qualcosa per aspirare a poter tornare a vincere.Nel ’19 la formula della Davis è cambiata e anche non siamo cambiati. In meglio.
    Nel corso dell’ultimo decennio, soprattutto, c’è stato un deciso cambio di rotta nella politica federale riguardo ai giocatori di vertice, con collaborazioni, supporto e sovvenzioni che finalmente hanno permesso a un generazione intera di raccogliere frutti, una generazione che ha potuto continuare a forgiarsi nei propri club, senza remore o avversioni.Senza questo gente come Sonego e Arnaldi, tanto per citarne due che le mani sulla Coppa ora le hanno messe, con ogni probabilità si sarebbe persa. Ricordo ancora la disperazione di Gipo Arbino quando non riusciva a darsi pace, sentendo d’avere tra le mani un possibile campione, e vederne mortificate le ambizioni, perché non riusciva a trovare credito per avviarlo all’attività internazionale che necessitava. Per fortuna poi le porte si sono schiuse.
    E adesso siamo qui, ancora discretamente increduli che sia davvero successo, che sia tutto vero.Dai, si dica la verità, quando Sinner è scivolato sotto per 0-40, con tre match point a sfavore, cosa abbiamo pensato? Può mai essere che Nole non riesca a trasformarne neppure uno? E invece… Quando sulla prima palla-partita gli è scappato via quel back di rovescio, non so perché, ma ho creduto d’aver avuto e visto un segno, che qualcosa potesse succedere. Sì, la Coppa l’abbiamo rivinta lì. Proprio in quell’istante. D’accordo, d’accordo, si deve sottolineare come Sonego sia stato decisivo nei due doppi contro Olanda e Serbia, come Arnaldi, pur giocando non bene, abbia strappato col cuore e col morso il primo singolo della finale, ma se si vuole indicare un momento, un momento solo per dire quando e come la nostra storia è cambiata, non si può che indicare quanto avvenuto nel decimo game del terzo set nel match tra Sinner e Djokovic. Lì, proprio lì è iniziato e finito tutto.La cosa ancor più straordinaria. E che non smette di sorprendermi, è che con ogni probabilità per avere un tris non dovremo attendere altri 47 anni: c’è un Italia bella e diversa, giovane e forte, capace di regalarci a piene mani, nel tempo che verrà, ciò che siamo stati costretti a elemosinare per decenni.Gli occhi ben più che umidi di domenica 26 Novembre 2023 li abbiamo desiderati a lungo, in un’era che pareva non finire mai; in una terra inaridita, che un destino malevolo sembrava aver reso incapace di ridare frutti. Invece, in tre giorni è cambiato tutto, 47 anni anni sono passati in un lampo e ora non sono che un ricordo.
    Elis Calegari LEGGI TUTTO

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    Intervista esclusiva a Lorenzo Sonego: “Quando in partita c’è lotta mi diverto. Il focus è migliorare i colpi d’inizio gioco, in particolare la risposta”

    Lorenzo Sonego (foto ATP tour)

    Se dico che le doti migliori di Lorenzo Sonego vanno ricercate nella semplicità e nell’umiltà, sembra quasi che voglia sminuire la grandezza di “Sonny”. Invece è proprio il contrario.Ecco, adesso vorrei avere qui accanto qualcuno che so io, quello che si inventa qualsiasi cosa pur di non di raccogliere le palle alla fine dell’ora, che si guarda bene dal passare la stuoia: da quando è in odore di passare in “terza”, gli sembra lesa maestà preoccuparsi delle faccende che stanno in coda agli allenamenti.Invece “Sonny”, già 21 al mondo, tre titoli ATP finora in carriera, non attende un “maggiordomo” e fa quello che ha sempre ha fatto, fin dal primo giorno in cui ha calcato un campo da tennis: a sessione conclusa, tappeto. Un dettaglio ma una sorta di mantra, giusto così per continuare a non montarsi la testa.
    Del resto il suo mentore e coach Gipo Arbino ha voluto crescerlo facendogli capire fin da subito che la grandezza sarebbe arrivato a coglierla solo ricordando sempre bene da dove si è partiti ed evitando con cura di bearsi a considerare ciò che aveva ottenuto e dove era arrivato.E di strada Lori e Gipo ne han fatta tanta per poter arrivare.Degli inizi, della militanza nelle giovanili del Toro, la squadra per cui Sonny stravede e stravedeva, si sa, come si sa di come, pur avendo piedi affatto disprezzabili, sia stato indotto proprio da Gipo a mollare definitivamente il calcio per puntare tutto sul tennis.
    Arbino le qualità di Sonego le ha lette subito. Il fisico segaligno, gracile degli inizi non doveva e poteva trarre in inganno: il ragazzo sarebbe cresciuto. Poco, ma sicuro. Piuttosto l’aveva colpito con quale dedizione Lorenzo si applicasse, con quale voglia e determinazione cercasse di migliorarsi ad ogni allenamento. Diceva tanto lo sguardo solare di Sonny: divertito quando gli veniva proposta una nuova sfida, fiammeggiante appena si entrava in lotta. E pazienza se per lungo tempo i palcoscenici erano gli Open di provincia e non i tornei internazionali: Lori non mollava un punto e correva e giocava già come se stesse al Roland Garros. Molto scarsamente considerato, praticamente ignorato, Sonny dovette attendere che Gipo chiamasse direttamente in Federazione perché qualcuno si accorgesse delle qualità del suo protetto e la vita prendesse una piega diversa.
    Lori, cosa vedi se ti volti indietro?“Guardo con tenerezza e orgoglio a tutto il percorso che ho compiuto. Ciò che sono ora è figlio del cammino fatto. Mi dà forza, consapevolezza considerare da dove sono partito.”
    Da ragazzino, quando ti chiamavano “Polpo” per l’incredibile tua capacità di allungarti e rimandare qualsiasi cosa, quando i tuoi avversari si chiamavano D’Anna e Marangoni, e Napolitano e Donati ti sembravano d’un’altra categoria, avresti mai immaginato di arrivare a questi livelli?“Io ci ho sempre creduto. Davvero ho sempre pensato che un giorno ce l’avrei fatta. Non ho mai dubitato ed è per questo che ho accettato di buon grado quello che Gipo via via mi proponeva, cercando di modificare il mio gioco da ‘difensore ad oltranza’ in attaccante da fondo.”
    Quello che continua a entusiasmarmi di te è il modo che hai di stare in campo: contrariamente a molti, tu dai proprio l’impressione di divertirti nella lotta, anzi più ce n’è e meglio è.“Sì, è proprio così. Anzi, devo dirti che quando sono andato in campo con troppa pressione, quando sentivo che non mi stavo divertendo, lì sono proprio giunte le mie prestazioni più insoddisfacenti.”
    Se ti riferisci al periodo prima della vittoria di Metz, quando hai cominciato a perdere classifica, non è che hai pagato lo sforzo prodotto per arrivare a essere 21 al mondo, e che hai cominciato a pensare a che meccanismo perverso s’innesta nella testa quando pensi a come salvaguardare il ranking ottenuto?“Può darsi. Certamente per me era un cosa totalmente nuova. Fino ad un dato momento non avevo fatto altro che salire, che inanellare prestazioni sempre più soddisfacenti; e invece ad un tratto è cominciato il periodo buio, quando, per un motivo o per l’altro, per un’inezia, le vittorie non venivano più. Se mi chiedi come ho fatto, non posso che risponderti che ho cercato di rimanere il più calmo e tranquillo possibile. Più mi agitavo e peggio andava. Dovevo imparare a gestire una situazione nuova, che prima o poi attraversano tutti. A me non era ancora capitato e dovevo imparare ad affrontarla.”
    Hai puntato sul lavoro, per migliorarti e venirne fuori? Guardandoti in TV e prima in allenamento, mi sembra che il tuo dritto sia ancora più buono, più ficcante e pesante. Anche la seconda di servizio, soprattutto quella da sinistra, mi sembra decisamente più efficace, e come effetto impresso, e come traiettorie?“Continuiamo a lavorare davvero tanto e quello che dici si unisce a quanto sono più forte d’un tempo sul rovescio. Il focus però rimane orientato verso il miglioramento dei colpi d’inizio gioco, con un’attenzione particolare sulla risposta al servizio: quelli sono i cardini del tennis moderno, a mio avviso.”
    Innegabilmente sei migliorato in tutto e aveva ragione Gipo nel dirti, nel momento più buio, che dovevi avere fiducia e pazienza perché sì perdevi certe partite inspiegabilmente, ma avevi aggiunto pezzi importanti e stavi giocando meglio di quanto non facessi quando vincevi sempre e comunque. Venendo a ora, cosa senti che ti manca ancora per giocartela e sempre coi migliori? A Roma hai perso da Tsitsipas ma hai avuto le tue chanches… In cosa senti che i più forti sono diversi, in cosa senti che hanno ancora qualcosa in più?“La loro continuità fa la differenza. Non hanno cedimenti, nemmeno per un attimo. Ai massimi livelli sono i dettagli quelli che determinano il risultato. Basta un nonnulla, una frazione di secondo di straniamento e con loro di ritrovi sotto. Ma lavoreremo anche su questo.”
    All’inizio ti ho chiesto che cosa vedevi voltandoti, adesso, ora che hai compiuto ventotto anni, ti chiedo che cosa immagini ci sia davanti a te“Vedo tante altre grandi stagioni da interpretare al meglio. Di sicuro quello che voglio fare è continuare a spostare l’asticella sempre più verso l’alto.”
    Sempre con Gipo a fianco, suppongo…“E ti pare che dopo tutto quello che abbiamo attraversato possa mai cambiare? Avanti con Gipo, come abbiamo sempre fatto.”

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    Challenger Piemonte, l’illusione di Lehecka

    Taro Daniel – foto Francesco Panunzio

    È durata venti minuti scarsi l’illusione di poter avere tra i protagonisti del Piemonte Open Intesa Sanpaolo, evento premium della neonata categoria ATP Challenger 175 che si sta disputando al Circolo della Stampa Sporting di Torino, il tennista ceco  Jiří Lehečka. Il n.39 del mondo era arrivato nella tarda serata di domenica, giusto dopo la sconfitta patita qualche ora prima a Roma agli Internazionali BNL d’Italia nel match che lo aveva opposto all’ungherese Fábián Marozsán. Appreso di un posto rimasto vacante nelle qualificazioni, Jiří Lehečka s’è fiondato a Torino, speranzoso di poter convertire l’amarezza romana con la possibilità di diventare il favorito per il titolo nella città subalpina, accettando di passare dalle qualificazioni. Un problema al piede destro ha però obbligato Jiří al ritiro dopo soli quattro games, spianando la strada del main draw all’ucraino Aleksandr Braynin, prossimo avversario di Flavio Cobolli.
    In attesa di veder scendere in campo la prima testa di serie, l’argentino Sebastian Baez, c’è da segnalare che oggi pomeriggio un temporalone ha scombinato gli orari di gioco, quasi impedendo a Edo Lavagno, “enfant du pays” di coronare il sogno di esordire nel tabellone principale. Per fortuna il brutto tempo se n’è andato presto e Edoardo ha potuto scendere in campo contro Luciano Darderi e portare a casa in due set ( 7-5 6-3) forse la vittoria più importante della sua carriera.
    A completare il pomeriggio azzurro, c’è da aggiungere che tre dei nostri hanno superato l’ultimo turno di “quali”, più il ripescaggio di Gianluca Mager, battuto per 6-3 6-2 al turno decisivo dal biellese Stefano Napolitano ma entrato nel main draw in qualità di lucky loser. Oltre a Napolitano, promossi il siciliano Salvatore Caruso, che ha sconfitto il torinese acquisito e cognato di Leo Bonucci, Federico Maccari, e Federico Gaio. Il faentino che si allena allo Sporting ha battuto con il punteggio di 6-2 6-3 il cuneese Andrea Gola, e domani sfiderà il tedesco Oscar Otte. Per Caruso ci sarà il giapponese Watanuki, per Mager lo statunitense Kovacevic, per Napolitano il finlandese Virtanen.
    In ultimo, da segnalare il bel match che il giapponese Taro Daniel ha vinto con un doppio 6-4 al cospetto dell’olandese (anche lui come Taro nato negli States) Gjis Brouwer: che a Daniel abbia giovato il soggiorno fatto nello scorso fine settimana in altura a Locana, ai piedi del Gran Paradiso, per provare a cancellare le fatiche di Cagliari, dove aveva impiegato ben 4 ore e 13 minuti per perdere da Ugo Humbert e quelle di Roma dove ha rimediato un’altra scoppola alla distanza cedendo a Emilio Nava per 6-4 al terzo?
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    Roberto Lombardi ci lasciava 10 anni fa. Due ricordi toccanti

    Il 18 marzo 2010 ci lasciava Roberto Lombardi. La terribile Sclerosi Laterale Amiotrofica non gli lasciò scampo, portandolo via prima di aver compiuto 60 anni. Fu un vero maestro, sia come divulgatore tv in centinaia di bellissime telecronache insieme a Rino Tommasi (che lo lanciò come commentatore con una geniale intuizione), Gianni Clerici e Ubaldo […] LEGGI TUTTO