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    La Rivoluzione del tennis passa dal calendario?

    La Rivoluzione del tennis passa dal calendario? – Foto Getty Images

    Il tennis mondiale si trova di fronte a un’opportunità storica di trasformazione. Mentre l’ATP continua a celebrare la crescita degli introiti nel circuito, una verità emerge con sempre maggiore evidenza: il calendario attuale del tennis professionistico sta frenando il potenziale commerciale di questo sport. La soluzione potrebbe essere sorprendentemente semplice: spostare l’Australian Open a dicembre (come un tempo) e riposizionare le ATP Finals come evento di apertura della stagione.
    Il mercato pubblicitario parla chiaro: dicembre rappresenta il 35% circa della spesa pubblicitaria annuale globale. Eppure, paradossalmente, è proprio in questo periodo che il tennis professionistico sceglie di prendersi una pausa. L’Australian Open, che attualmente genera circa 80 milioni di dollari di ricavi pubblicitari collocato in gennaio, potrebbe facilmente raddoppiare questa cifra con un semplice spostamento di calendario nel periodo natalizio.
    La proposta di riorganizzazione è tanto audace quanto logica: una off-season dal 20 dicembre ai primi di febbraio, permettendo agli atleti di godere delle festività natalizie e di un meritato riposo. Le ATP Finals diventerebbero l’evento di apertura della stagione ad inizio febbraio, creando un’anticipazione mediatica paragonabile forse al Super Bowl, con atleti freschi e riposati pronti a dare spettacolo. Il calendario regolare si snoderebbe da metà febbraio a dicembre, culminando con l’Australian Open, perfettamente posizionato per sfruttare il picco del mercato pubblicitario natalizio.La Davis potrebbe esserci ugualmente nei soliti slot (però a fine Marzo) e si potrebbero fare le Finals dopo la fine degli Us Open in settembre.
    Gli analisti di mercato contattati hanno previsto che un Australian Open dicembrino potrebbe generare un incremento dei ricavi pubblicitari delle sponsorizzazioni e delle vendite di merchandising. Le ATP Finals, riposizionate come evento di apertura della stagione, potrebbero vedere un aumento di interesse perchè primo evento dell’anno.Per i giocatori, questo nuovo calendario rappresenterebbe una vera e propria rivoluzione qualitativa. Quarantacinque giorni consecutivi di off-season permetterebbero una migliore gestione dei carichi di lavoro e del recupero fisico, mentre il maggior tempo a disposizione per la preparazione fisica si tradurrebbe in prestazioni di più alto livello.
    Melbourne, sede dell’Australian Open, beneficerebbe enormemente di questo cambiamento. Il turismo durante il periodo natalizio potrebbe aumentare notevolmente, con evidenti ricadute positive sull’economia locale. La città si trasformerebbe nella capitale mondiale del tennis a dicembre, creando sinergie uniche con lo shopping festival e le attività commerciali del periodo festivo.
    La storia del torneo ed il problema della dataL’Australian Open ha una storia particolare che lo distingue dagli altri major: la continua ricerca della data ideale nel calendario tennistico. Mentre oggi il torneo è saldamente ancorato a gennaio, il suo percorso storico rivela una serie di sperimentazioni e cambiamenti dettati da esigenze climatiche, organizzative e sportive.
    Nel periodo successivo alla prima guerra mondiale, il torneo era caratterizzato da una notevole flessibilità temporale. Nel 1919, per esempio, si svolse a gennaio, mentre il torneo di Brisbane venne disputato ad agosto, quando le condizioni climatiche australiane risultavano più favorevoli, con temperature meno torride e un’umidità più gestibile.
    Gli anni ’70 segnarono un periodo di particolare sperimentazione. Nel dicembre 1976, gli organizzatori tentarono una prima collocazione invernale. L’esperimento proseguì con un secondo torneo nel 1977, conclusosi il 31 dicembre. Tuttavia, questa soluzione si rivelò problematica: il torneo non riuscì nell’intento di attirare i migliori giocatori del circuito mondiale, compromettendo così il suo status nel panorama tennistico internazionale.
    Dal 1982 al 1985, l’Australian Open trovò una temporanea stabilità a metà dicembre. Ma la vera svolta arrivò con la decisione di spostare il torneo a metà gennaio a partire dal 1987. Questa transizione fu così significativa che nel 1986 il torneo non venne disputato, creando un “anno vuoto” nella storia del Grande Slam australiano.
    Dal 1987, l’Australian Open si è svolto regolarmente a gennaio, ma il dibattito sulla sua collocazione ideale non si è mai sopito. Voci autorevoli del tennis mondiale come Roger Federer e Rafael Nadal avevano sollevato perplessità sulla tempistica attuale. Secondo questi campioni, la vicinanza alle festività natalizie e di Capodanno rende difficile per i giocatori raggiungere la forma ottimale. La loro proposta era spostare il torneo a febbraio rifletteva un’esigenza concreta: garantire agli atleti il tempo necessario per una preparazione adeguata dopo la pausa invernale.
    Questa storia di continui aggiustamenti e dibattiti sulla data ideale dell’Australian Open evidenzia una verità fondamentale: nel tennis professionistico, la collocazione temporale di un torneo non è solo una questione di calendario, ma un elemento strategico che influenza la qualità dello spettacolo sportivo e la performance degli atleti. La discussione aperta da Federer e Nadal suggeriva che, forse, l’ultima parola sulla data perfetta per questo Slam non è ancora stata detta.
    Francesco Paolo Villarico LEGGI TUTTO

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    Il ritorno in campo di Sinner dopo US Open. Schedule “troppo fitto” nei prossimi due mesi?

    Jannik Sinner in allenamento al China Open

    18 giorni dopo aver alzato lo splendido trofeo di US Open, Jannik Sinner domani mattina (intorno alle 9, 9.30 italiane) tornerà in competizione al China Open, opposto al cileno Nico Jarry. C’è grandissima curiosità e affetto per ritrovare il nostro campione in campo, in questo 2024 tanto bello da sembrare quasi impossibile. Invece è tutto vero. Verissimo. Sinner ha vinto 2 Slam, 2 Masters 1000 e 6 titoli in totale,  risultati eccezionali che lo portano a dominare il ranking mondiale con il ragguardevole bottino di 11.180 punti, solo una manciata di leggende sono riuscite a far meglio nella storia moderna del gioco. Un discreto bottino di quei punti vengono dagli eccellenti risultati dello scorso autunno, quando il Sinner-Express è partito a razzo, diventando veloce quanto un Shinkansen nipponico. Jannik proprio in Cina cambiò passo, l’ha riconosciuto lui stesso nelle parole pronunciate negli eventi pre-torneo a Pechino, dove è stato accolto come un vero Imperatore dalla fantastica accoglienza locale. Dopo le settimane passate a lavorare intensamente, Jannik nel 2023 si presentò in Asia con un servizio più incisivo, un diritto ancor più sicuro in spinta, una condizione fisica stellare e una fiducia nel suo tennis che gli ha permesso di battere tutti gli avversari, alcuni travolti con il suo ritmo infernale riveduto e corretto, altri con cambi tattici importanti e sorprendenti, come Medvedev nella finale di Vienna, clamorosamente sfidato e stroncato sul piano della corsa, lotta e resistenza. Un Sinner stellare, che dall’esordio in Cina alla vittoria in Davis a Malaga perse solo due partite, contro Shelton a Shanghai e contro Djokovic nella finale di Torno alle ATP Finals. Poi solo vittorie, solo partite meravigliose.
    Da domani Jannik entra in una fase per lui nuova: difendere i risultati dello scorso anno. Anzi, se possibile far meglio. Non sarà facile: nel 2023 vinse a Pechino l’ATP 500, vinse a Vienna un altro ATP 500, giocò le Finals di Torino da protagonista vincendo 4 ottimi match e arrendendosi solo a “Nole” per il titolo, e quindi a Malaga trascinò il team di Volandri al successo. Di spazio per migliorare c’è solo negli ultimi 2 Masters 1000, e l’eventuale vittoria a Torino nell’edizione 2024 del Masters. Ma, oggettivamente, sarebbe troppo chiedere a Jannik di fare un nuovo filotto del genere, o addirittura vincere tutti i prossimi tornei finendo la stagione imbattuto. Di avversari tosti ce ne sono eccome, assai agguerriti, vogliosi di sgambettare il più forte su piazza. La speranza è che Jannik nelle prossime settimane giochi un gran bel tennis, solido, sicuro, che in campo si senta bene e si diverta, esplodendo la magia e potenza dei suoi colpi. E in questo scenario ideale, lontano da infortuni o problemi di altro tipo, i risultati sicuramente arriveranno. Ma, la vera domanda, è probabilmente un’altra. Jannik Sinner da qua a fine novembre ha davanti un calendario personale assai fitto: il torneo di Pechino, già iniziato, poi il 1000 di Shanghai; quindi si torna in Europa, per Vienna (dove difende il titolo 2023), l’ultimo 1000 in stagione di Paris-Bercy, e via a Torino per le Finals. Ovviamente non può mancare a Malaga, in Davis Cup, dove sarà la punta di diamante della nostra squadra, per cercare di confermare il titolo 2023, obiettivo che lo stesso Sinner ha dichiarato massimo nella sua testa. Questa corsa nelle prossime 8-9 settimane, non sarà fin troppo impegnativa? Riuscirà Jannik a tenere al massimo condizione fisica, tecnica e mentale, per ripetere le meraviglie dello scorso anno, o addirittura far meglio nei M1000?
    Proprio in questi giorni è assai animato il dibattito sulla durezza sfiancante della stagione, di un calendario troppo ricco di impegni a cui i big devono presenziare, con un sistema di classifica che premia la continuità più della qualità. Zverev, Alcaraz, ma anche altri, hanno sparato contro il sistema, arrivando a dire che la motivazione a giocare così spesso non c’è affatto (Carlos) o che nemmeno un clamoroso sciopero “contro se stessi” visto in teoria l’ATP è un’associazione dei giocatori non servirebbe a niente (Zverev). Parole poi pronunciate nel corso della Laver Cup, meravigliosa esibizione, assai attraente e divertente, ma non esattamente “necessaria”, tanto che molti sul web hanno criticato aspramente le parole del n.2 e 3 del mondo.. Più sfumata e direi intelligente la risposta a distanza di Sinner sul tema: ok, ci sono i tornei, e alcuni sono considerati “mandatory”, ma… si può anche dire di no, rinunciare e non muore nessuno. Gestione, parola decisiva per poter presentarsi in campo al meglio e giocare per vincere, non solo per partecipare, preservando al meglio testa e fisico.
    Proprio per le parole secche – come sempre nel suo stile – e lucide di Sinner sul tema calendario-impegni, non sarebbe forse meglio rinunciare a qualcuno dei suoi prossimi appuntamenti, anche a costo di perdere qualche punto in classifica, per arrivare davvero al top al culmine dell’anno, ATP Finals e Davis Cup? E se si, quali? Bella domanda… Lasciando perdere totalmente la questione sponsor ed eventuali contratti coi tornei, aspetti di sicuro importanti ma sui quali c’è sempre un margine di trattativa guadando all’obiettivo primario di salvaguardare il corpo e la testa per i grandissimi appuntamenti, la scelta di quale evento sarebbe da sacrificare non è facile. Si potrebbe puntare su Vienna, torneo 500 quindi non obbligatorio, ma è campione in carica… È vero che il margine di sicurezza nel ranking è ampio, ma gettare via 500 punti è sempre un peccato. E poi, per la famiglia Sinner, il torneo della bellissima capitale dell’impero austro-ungarico è a un passo da casa, e dove si ci trova bene si torna sempre volentieri. Allora un torneo da sacrificare potrebbe essere forse Bercy, dove lo scorso anno Jannik non fece granché – ricorderete il ritiro dopo aver terminato la sua partita quasi all’alba… – e assai vicino alle Finals di Torino. Però è uno dei pochi eventi dove il pusterese può incrementare il suo bottino di punti, e chissà che questo non possa essere uno stimolo a tornare.
    Probabilmente Jannik sceglierà il da farsi cammin facendo, attento alle sue prestazioni da qua in avanti, in relazione a quante partite giocherà e da come reagirà il suo fisico allo stress delle partite. In caso vincesse tanto, forse mollare qualcosa potrebbe essere un’opzione importante per arrivare fresco e ben allenato a Torino e poi Malaga. Se per caso arrivasse qualche stop imprevisto, ecco che il suo finale di stagione si accorcerebbe naturalmente e quindi non ci sarebbero problemi di sorta (scenario che, ovviamente, speriamo non si avveri!).
    In chiusura mi preme sottolineare due aspetti.
    1) Jannik ha già dimostrato di esser piuttosto bravo a livello di gestione dei suoi impegni. Ha preso scelte impopolari – vedi il no alla Davis lo scorso anno a settembre – quando sentiva di dover lavorare e non giocare, quindi anche se oggi è n.1 e la pressione del tour su di lui maggiore, la sensazione è che continuerà a gestirsi in modo strutturale, guardando al medio periodo e non al breve;
    2) Non facciamo l’errore di considerare che il suo straordinario autunno 2023 sia la normalità. No. Lì fu straordinario, alzò il suo livello di gioco fino alle stelle diventando imprendibile e vincente, ma non dobbiamo assolutamente chiederglielo di nuovo. Si ci riuscirà saremo i primi a gioire, se arriverà qualche sconfitta… pazienza, il suo 2024 è già così qualcosa di unico e bellissimo. La sua Straordinaria Normalità sta nell’essere un tennista e persona capace di capire e sentire quel che è meglio per lui, e agire di conseguenza. Fidiamoci di Jannik, non resteremo delusi.
    Marco Mazzoni LEGGI TUTTO

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    Korda, quando la purezza di gioco (ancora) non basta

    Sebastian Korda (foto ATP site)

    Colpi di eleganza superiore, accelerazioni che lasciano senza fiato per pulizia d’impatto e precisione. Poi…, quando meno te l’aspetti… “clic”, interruttore si sposta sull’off. Capita che si spegne la luce, spesso in fasi calde degli incontri, e Sebastian Korda resta ancora un diamante tanto splendente quanto incompiuto. Il talentoso figlio d’arte del grande Petr ha vissuto forse le due migliori settimane in carriera, con la vittoria all’ATP 500 Washington e poi la cavalcata a Montreal, con la bellissima vittoria nei quarti contro uno Zverev tutt’altro che dimesso. Ma, arrivato ad un passo dallo sbarcare per la prima volta in finale in un 1000, forte di una forma tecnica eccezionale e grande fiducia, è incappato in una sconfitta “evitabile” contro Popyrin. Niente finale, niente avvicinamento concreto alla top10, dove per qualità di gioco potrebbe ampiamente starci. L’australiano ha giocato una bellissima partita, concreta e offensiva, ma la sensazione dal campo è stata che Sebastian abbia giocato con più qualità, che fosse più forte del rivale, ma.. alla fine ha perso.
    Korda ha sprecato per due volte un break di vantaggio nel primo set, gravissimo quello 6-5  restituito con un turno di battuta povero, difensivo, chiuso con un doppio fallo terribile alla seconda chance concessa al rivale. Ancor più grave come è entrato nel tiebreak, con il macigno dell’occasione sprecata che ha fatto diventare i suoi piedi due blocchi di cemento, e il braccio teso come una corda di violino. Alexei è andato a prendersi il primo punto con coraggio a rete (e un pizzico di buona sorte nella rocambolesca schermaglia) e poi ha continuato a spingere con precisione e coprire bene il campo, senza fare niente di incredibile, solo un tennis lineare, prevedibile ma ben eseguito. Per questo è stata troppo flebile la risposta agonistica dello statunitense, incapace di trovare una reazione veemente, di rabbia, e riportarsi avanti. Al contrario ha giocato sette punti uno più dimesso dell’altro, come il diritto malamente sparacchiato via e poi un back di rovescio pessimo, regali che hanno permesso a Popyrin di vincere il “decider” addirittura per 7 punti a 0. Per come era andato il parziale, ai punti l’aveva condotto Sebastian, più efficace in risposta e maggiormente in controllo dei tempi di gioco ma alla fine… gli è andata male. Molto male. Korda ha subito un break immediato all’avvio del secondo set, la sua partita di fatto è terminata lì. Enorme il gap di consistenza, intensità e “fuoco” rispetto all’australiano, bravo a continuare a spingere con il suo diritto pesante e servire bene. Un successo alla fine meritato per Popyrin, ma quanti rimpianti per Korda.
    Questa partita è lo specchio dei motivi che ancora impediscono a Sebastian di spiccare il volo e far fruttare un talento tecnico troppo importante per restare impantanato nelle posizioni di rincalzo. Non sono molti i tennisti capace di impattare la palla tanto bene quanto “Sebi”, e senza grandi difetti tecnici. Al servizio può prendere ritmo e sparare Ace, prime e seconde palle precise con ogni angolo e taglio; il diritto è un colpo assolutamente di livello, movimento composto e preciso, impatto in anticipo ben davanti al corpo e la palla gli esce dalle corde come telecomandata, spesso a flirtare con le righe, imprendibile. Il rovescio è di una bellezza disarmante, impatto sontuoso talmente corto che non riesci minimamente a capire dove tira. La super coppia Agassi – Graf l’ha spesso ospitato a casa loro a Las Vegas per delle sessioni di allenamento insieme, e più volte Andre ha raccontato di esser rimasto basito per la velocità dei colpi del figlio d’arte, e la sensazione di disarmo quando non capisci dove te la piazzerà. Korda è un tennista costruito benissimo fin da piccolo, ha un gioco naturale veramente bello, è forse il tennista più elegante su piazza. Ma… qualcosa manca. Eccome se manca.
    In carriera ha subito già alcuni stop importanti per infortunio, e la flessibilità delle gambe non esattamente quella di Sinner o dei migliori corridori del tour. È molto alto, e può apparire lento con le sue movenze; in realtà legge piuttosto bene il gioco e parte con il tempo giusto, pur restando assai più forte quando comanda rispetto a quando è costretto a difendere. La tecnica è sopraffina, la parte atletica è in miglioramento. Gli manca forse un po’ di gioco con spin di controllo quando di pura accelerazione non riesce a prendersi il punto, ci si può lavorare. Quel che ancora lo penalizza duramente è l’aspetto agonistico, un mix di carenza d’impeto e autostima. “Sebi” non sarà mai l’Alcaraz che sprizza energia da tutti i pori, ma in certe fasi dell’incontro, quelle più dure, è indispensabile che Korda tiri fuori altra energia, per il suo gioco ma anche per dare un messaggio all’avversario. Popyrin ieri notte, e tanti altri competitor, vengono messi sotto dai suoi colpi, mai dalla sua intensità ed agonismo. Se vuoi issarti nella top10 e restarci, battagliando ad armi pari non solo a furia di accelerazioni balisticamente sopraffine, serve altro piglio, una vivacità e pugnacità che oggi manca a Sebastian. Magari dentro la sente, ma fa ancora enorme fatica a tirarla fuori e portarla nei suoi colpi. Anzi, troppe volte tira i remi in barca per quei 10 minuti decisivi, finendo in balia delle ondate rivali.
    La sensazione è che giochi il primo punto del match come quello sul 5 pari 40 pari allo stesso modo, sia per energia che schemi, e nel tennis di vertice non funziona affatto così. Il tennis è un bellissimo e maledetto sport di situazione, spesso non vince quello con colpi migliori ma il giocatore più abile nel fare giocare male l’altro, portandolo in posizione scomoda o capace di alzare l’asticella oltre i suoi limiti, con qualche sorpresa. Korda sembra ancora fin troppo ancorato a un tennis raffinato, elegante e se vogliamo fuori dal tempo, ma poco flessibile e incapace di far un salto di qualità nei momenti cruciali. Ha bisogno di un lavoro importante nell’autostima, nella visione dei momenti, nella flessibilità di scelte e colpi. Solo riuscendo a gestire con più determinazione quest’impostori, solo aizzando i tizzoni del suo fuoco interiore potrà fare un salto di qualità importante. Navratilova poco più di un anno fa scrisse che Korda sarà il prossimo tennista statunitense a vincere uno Slam. Come tennis, è una previsione assolutamente condivisibile. Ma la mitica Martina sa benissimo che per alzare un Major non bastano colpi dal centro del campo mortali quanto una cartella dell’agenzia delle entrate… serve una mentalità e durezza che Korda fa fatica ad esplodere. Ci riuscirà?
    Marco Mazzoni LEGGI TUTTO

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    Arrivederci e grazie, sir. Andy Murray. Il tributo a un grande campione

    Andy Murray saluta a Parigi 2024

    “Never even liked tennis anyway.” Solo un personaggio animato da cotanta arguzia ed ironia come Sir. Andy Murray poteva scegliere un epitaffio così per salutare il mondo del tennis, il suo mondo, dopo aver disputato l’ultimo match ufficiale alle Olimpiadi di Parigi, il doppio perso insieme a Daniel Evans contro il team a stelle e strisce Fritz – Paul. Si chiude con una sconfitta e non un’altra medaglia olimpica la carriera di Murray, lunga e travagliata, animata da tanti episodi, cadute e risalite, vittorie storiche e tonnellate di polvere masticate nell’infinita rincorsa ai tre davanti, Roger, Rafa e Novak, complessivamente più forti e vincenti di lui. Fab4? Per molti, sì, per altri nient’affatto, visto che erano loro i tre tenori e Andy solo la gamba zoppa dei Beatles tennistici, uno che ha provato a restare aggrappato al loro treno velocissimo, salendo e scendendo a più riprese, con più frustrazioni che soddisfazioni. Uno britannico quando vinceva, “scozzese” quando perdeva…
    Ci vorrà del tempo per analizzare bene, a freddo, la carriera di Murray. Una cosa vorrei chiarirla immediatamente, forte e chiara: guai ad apostrofarlo come “perdente”. È vero che se andiamo a vedere il suo bilancio contro gli altri tre big ha solo dati in negativo (11-25 vs Djokovic, 7-17 vs Nadal, 11-14 vs. Federer), e che a livello di vittorie Slam siamo indietro anni luce (3 per Andy, contro i 20 di Roger, 22 di Rafa e 24 di Novak). 8 finali Major perse, 3 vinte. Una statistica non esaltante ma… si può considerare “perdente” un ragazzo che si è spinto oltre il limite delle sue capacità fisiche e tecniche, migliorando lentamente ma costantemente il suo gioco, arrivando a vincere 46 tornei ATP (tra cui 14 Masters 1000), due Ori olimpici consecutivi in singolare (record assoluto questo), US Open e due Wimbledon, riportando uno Slam nel Regno Unito dopo il mitico Fred Perry nel 1936? Io assolutamente no.
    Proprio in questi giorni Olimpici a Parigi, si è acceso un forte dibattito sul concetto di sconfitta, di grandezza o meno di un risultato. Nel mondo super competitivo di oggi, dove milioni di persone praticano sport a livello agonistico sostenute da metodi scientifici di allenamento e grandi mezzi, arrivare secondi o terzi è indice di assoluta grandezza, non di povertà o miseria. Chi narra lo sport esaltando solo e soltanto vittoria e primati ha perso misura, non rende un bel servizio. I secondi, terzi o pure i quarti, sono enormi atleti e campioni. Non è solo il primo posto il metro di tutto. È ora di cambiare paradigma alla nostra visione dello sport, e se vogliamo della vita. Murray in questo è l’esatto esempio di un atleta formidabile che è andato oltre ai propri difetti e mancanze, riuscendo ad ottenere risultati eccezionali nonostante rivali più attrezzati. Per questo è un tennista esemplare, che dobbiamo ringraziare per le tantissime ore di spettacolo e divertimento prodotte nei più importanti court del mondo.

    Never even liked tennis anyway.
    — Andy Murray (@andy_murray) August 1, 2024

    La sua storia è partita dal nord, Scozia, Dunblane per la precisione, uno di quei posti dove puoi passare solo per caso se la vita ti conduce attraverso altre rotte. Lontanissimo dai sacri prati verdi di Wimbledon. Ha iniziato a giocare a tennis a tre anni, spinto dalla passione dell’onnipresente madre Judy. Che la sua vita e carriera non fosse costellata solo da rose e fiori l’ha intuito a otto anni (1996), quando sopravvisse miracolosamente al massacro scolastico alla Dunblane Primary School: 16 compagni di classe e un insegnante furono assassinati in una sparatoria da un folle, entrato nella scuola per vendetta. Fu il più grave fatto di sangue accaduto in un istituto nella storia britannica moderna. La famiglia Murray conosceva l’aggressore. Non è mai stato un ragazzo come gli altri Murray, fin da quando ha iniziato a calcare il tour Pro con quella chioma di capelli ribelli, lo sguardo torvo e poi improvvisamente sereno, e quella lingua tagliente quanto il rovescio, forse ancor più letale… Andy in realtà è un tipo molto tranquillo nel quotidiano, animato da quell’irresistibile humor tutto British che esterna nei suoi leggendari tweet social, o con gli amici di sempre di fronte a un buona birra, talvolta anche nelle sala stampa. Per la sua ex allenatrice Amelie Mauresmo, “Andy ha come una doppia personalità. In campo e fuori sono due persone diverse, forse anche per questo non è riuscito a tirare tutto il meglio di se in ogni fase della sua carriera” ricorda l’ex campionessa francese, oggi direttrice di Roland Garros. Cosa rara tra i professionisti maschi, Murray è da sempre un appassionato sostenitore della parità di retribuzione per i tour maschili e femminili, di diritti e visibilità. “Sono stato coinvolto nello sport per tutta la vita e il livello di sessismo è irreale”, ha scritto una volta Murray su Instagram. Murray è diventato solo il secondo giocatore Top-10 nella storia dell’ATP Tour ad avere un’allenatrice nel suo box con Mauresmo. Tantissime chiacchiere allora, ma lui mai se c’è curato, è sempre andato avanti per la sua strada.
    Proprio il rapporto con i coach è stato travagliato. Ne ha cambiati tanti, forse troppi. C’è chi dice per la presenza ingombrante della madre – e tutti sappiamo quanto possa essere castrante per un giovane una mamma onnipresente e mai doma…- tanto che alla fine i suoi migliori anni sono arrivati sotto la severa guida di Ivan Lendl, un super campione per certi versi ha più di un affinità con Murray. Il carattere scontroso, la certosina costruzione, anche lenta se vogliamo, del proprio gioco, le molte sconfitte Slam e la sensazione che vi fossero più “talenti” di lui, ma alla fine le vittorie arrivavano. Murray ha dovuto lavorare tanto, forse più degli altri tre campioni della sua epoca, per tirar fuori ogni stilla del suo talento. Ha stentato più degli altri a costruire il fisico, strutturalmente meno forte e più fragile, e il suo tennis è cresciuto e quindi esploso più tardi. A completata maturazione, dopo estenuanti sessioni di lavoro (in estate nel caldo di Miami per prepararsi al meglio a quello altrettanto torrido di NYC), finalmente i vari tasselli tecnici hanno iniziato a lavorare all’unisono, e nel 2012 proprio nella Grande Mela è arrivato il primo, sospirato, Slam. Forse gli è mancato almeno un successo agli Australian Open, ma complessivamente Djokovic nelle tante finali gli è sempre stato superiore per mentalità e completezza di gioco.

    Forever in our hearts 💙 Today, we celebrate an amazing career and legacy. #SirAndy | @andy_murray pic.twitter.com/dailIta1Zo
    — ATP Tour (@atptour) August 1, 2024

    Cosa è mancato a Murray per vincere di più? Un po’ tutto se vogliamo, o solo dettagli fondamentali a fare la differenza. Di sicuro la sua seconda di servizio non è mai stata all’altezza degli altri tre, col diritto non ha mai davvero superato il limite di un’apertura meno fluida, e per anni ha tenuto un’attitudine fin troppo difensiva e da contrattaccante, spremendosi al limite invece di giocare più di petto, più diretto e offensivo. Non è un caso che nelle sue tre vittorie a Wimbledon (due ai Championships, una nell’evento Olimpico 2012) si è visto il suo tennis migliore, più rapido e incisivo, zero attendismo e tanta qualità. Forse avrebbe dovuto lavorare maggiormente sulla mentalità offensiva, provando a sgravarsi da un conflitto interiore e col rivale che l’ha penalizzato a più riprese, esplodendo spesso e volentieri in una rabbia agonistica nefasta e autodistruttiva. Iconiche le sue incazzature furibonde contro il suo angolo, gli sono costate più di una sconfitta. Ma anche a livello puramente fisico ha sofferto la minor potenza rispetto a Nadal, la minor elasticità e facilità rispetto a Federer, la minor resistenza rispetto a Djokovic. Solo nel 2016, il suo anno migliore, è riuscito a tenere il piede a manetta per molti mesi, con una seconda parte di stagione irreale che l’ha portato a dominare, vincere le Finals a Londra e chiudere meritatamente da n.1 del mondo. Uno sforzo clamoroso, oltre la sua capacità di tenuta, che ha pagato a caro prezzo con l’inizio dei problemi all’anca – poi operata – che di fatto hanno chiuso la sua carriera al vertice. Questo è stato l’ultimo grave infortunio di una lunga serie che l’ha caratterizzato per tutta la carriera. Nadal e Djokovic hanno spinto come forsennati, ma il loro fisico in qualche modo ha tenuto; quello di Andy assai di meno.
    Lasciando l’annoso confronto con gli altri, il tennis di Murray stato un capolavoro di gioco difensivo pronto al contrattacco. Mano assai più sensibile di quello che gli è sempre stato riconosciuto, ha migliorato progressivamente in visione e prontezza per cambiare ritmo e attaccare. Leggendarie le sue rincorse, solo apparentemente disperate, come i tanti passanti e rovesci vincenti. Ho sempre pensato che dovesse spostare più in avanti il baricentro della sua posizione, per soffrire e consumarsi di meno. Il suo coach Lendl c’ha provato a più riprese, anche portandolo insieme a giocare a golf e provando a fargli capire la posizione ideale sui Green. C’è riuscito a tratti, con pesanti ricadute un po’ per infortuni, un po’ per la sua testa assai conflittuale, che nelle fasi delicate lo forzava a retrocedere su ataviche certezze difensive piuttosto che l’arrembaggio. Ormai è andata, ma chissà che ne penserà Andy in futuro, riguardando nella sua testa la propria lunga carriera davanti ad un bel fuoco e con i figli attorno. Certamente è consapevole di aver speso ogni stilla di energia fisica, in allenamenti estenuanti e infinite sessioni a riprendersi dai tanti infortuni.

    1001 singles matches739 victories105 top 10 wins46 ATP titles41 weeks as World No. 129 wins over the Big 314 Masters 1000 titles11 Grand Slam finals3 Grand Slam titles2 Olympic Gold medals1 @andy_murray
    Thank you, Sir Andy 💙💙💙 pic.twitter.com/SQyNgA2hqV
    — Tennis TV (@TennisTV) August 1, 2024

    Operazioni, cambi di rotta e frustrazioni per finali perse e risultati che non arrivavano come sperato. Ma anche vittorie, momenti di gloria e immense soddisfazioni. Murray ha scritto pagine memorabili di tennis e di vita, mettendo in campo tutto quello che aveva e anche di più. Si è messo a nudo più e più volte, senza la paura di mostrare fragilità, lacrime e pensieri oscuri. Ha perso molto e vinto tanto. Ha lottato e ce l’ha fatta. Alla fine Murray, con tutti i suoi pregi e difetti, è un campione splendido che sentiamo più vicino a noi rispetto ad altri così forti da sembrare inarrivabili. Una volta sulle scale della press room al Monte Carlo Countri Club ci siamo scontrati fisicamente… lui scendeva di corsa, io salivo di corsa… boom! Siamo quasi caduti a terra e lui mi ha acchiappato e rialzato. È stato lui a sorridere e scusarsi per primo. Quello sguardo inquieto pur nel sorriso non lo dimenticherò mai.  
    Marco Mazzoni  LEGGI TUTTO

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    La domenica prima di Wimbledon

    Silenzio. Wimbledon è la cattedrale del silenzio. Prima di un punto importante, prima dello scoccare di un servizio, prima di un’azione di gioco, veloce e vincente. 15mila cuori che attendono, insieme a un’universo di appassionati collegati da ogni dove. In nessun altro stadio al mondo si avverte quel silenzio così assordante, il rispetto quasi religioso per il gioco, unito alla gioia di esser lì, proprio dove il tennis è nato e diventato mito.
    Vivere Wimbledon e sostare sul Centre Court la domenica precedente l’inizio del torneo è un’esperienza ancor più rara. È rubare un briciolo di leggenda, in solitario, prima che i Doherty Gates si aprano e l’All England sia pacificamente invaso. Non ci sono parole che possano spiegare l’emozione che si prova entrando sul centrale vuoto e perdersi nella sua irregolare perfezione. Il verde dell’erba vergine abbaglia gli occhi. Quel manto è come una bellissima dea, ti cattura lo sguardo e ti rapisce, non puoi staccarti mentalmente e fisicamente. Cerchi di scrutare ogni dettaglio, ogni filo, accarezzando idealmente quella meraviglia e provando un brivido, quello dei pochi fortunati che davvero avranno il privilegio di poter entrare sul quel campo, per dimostrare la propria abilità.
    Ti fermi nel silenzio, da solo, sul Centre Court, godendo ogni attimo di quella beata solitudine. Non vorresti esser da nessun altra parte e con nessun altro. Un momento che devi assaporare per te stesso, perché nessuno te lo possa rubare. Hai aspettato per anni questo attimo, fin da ragazzo, quando una vetusta tv 14 pollici portava in casa le prime incerte immagini in bianco e nero dei Championships, con le velocissime falcate di Borg a rincorrere i tocchi d’autore di McEnroe; poi venne la potenza di Boris a far saltare il banco, le eleganti volee dell’angelo svedese, fino agli Ace di Pete e le pennellate di Roger. Leggende.
    Il tempo sembra non scorrere. Vivi quei momenti sospeso, con gli occhi che lavorano di fantasia insieme al cervello, immaginando i prossimi rimbalzi. Sembra di percepire quel suono ovattato che non ha eguali al mondo. La palla scivola via, carpita dalle corde di un giocatore che con la tutta la sua velocità la intercetta e la doma, trovando un angolo scoperto, un colpo vincente. Magari una volée.
    Che ne sarà di Wimbledon 2024? Chi alzerà il piatto al sabato e la coppa la domenica? Sarà di nuovo Alcaraz il campione, o il numero uno al mondo Sinner diventerà il primo italiano a trionfare ai Championship? Riuscirà il “Djoker” a stupire ancora una volta e rinascere, dopo una manciata di giorni dall’operazione al menisco? Oppure qualche outsider si farà largo, sbaragliando la concorrenza? Chissà. Tutti ovviamente speriamo nell’impresa di Jannik, mai un azzurro ha iniziato Wimbledon da testa di serie numero uno, sembra in forma e pronto a dare il suo meglio per arrivare sino in fondo, nonostante un tabellone a dir poco accidentato… Ma, pensiamoci bene…. Se ami davvero il Tennis, nella sua essenza, alla fine il vincitore è non la sola cosa che conta.
    Per chi vive e ha sempre vissuto Wimbledon come un dono, non importa “solo” chi vincerà il torneo. A chi come noi sosta idealmente da solo sul Centre Court la domenica prima dell’inizio, anche solo con l’anima ed il cuore essendo fisicamente lontano, interessa soprattutto la bellezza del gioco e la storia che si sta per scrivere e rinnovare. Chiudiamo gli occhi, aspettando le 14 del lunedì, con il campione in carica che entra in campo, ad aprire solennemente la nuova edizione del torneo. Immaginiamo una palla che flirta con la riga, un Ace al centro imprendibile. Ci scorre sulla schiena il brivido per un diritto vincente in avanzamento, bellissimo. L’emozione per una volée perfetta che muore appena al di là della rete, figlia di gesti bianchi, ci fa battere forte il cuore, come l’esaltazione per un passante disperato tirato in corsa, fuori dal campo, fuori dal mondo. Cerchiamo la bellezza del gesto, che nel bianco immacolato (o quasi) del rigido dress code dei Championships ci riappacifica con un’arte fin troppo piegata a logiche ormai estremizzate sul piano atletico e commerciale.
    Wimbledon resta l’essenza del gioco, e ogni anno rappresenta il ritorno a un passato che nessuno potrà rubarci e che ci manca. Il tennis è uno sport bellissimo, seppur evoluto in un modo che non tutti apprezzano; tocca andare avanti e rinnovare con canoni diversi una passione che continua a bruciare. Lunedì inizieranno i Championships, ma per noi è già iniziato, il giorno prima. Sostando con l’anima su quel campo. Da soli. Perché il nostro Wimbledon è dentro di noi.
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    Rafael, l’uomo che ha sollevato il mondo

    Nadal sulla passerella degli Internazionali a Roma

    Un uomo che ha segnato in modo indelebile il tennis degli ultimi venti anni, attorniato da una marea umana di persone e un’ondata irrefrenabile di affetto, mentre saluta dopo la sconfitta. Un fiume di gente lo circonda a perdita d’occhio, lo abbraccia e idealmente lo eleva sino all’infinito. La potenza di questa immagine di Nadal sulla passerella del torneo dopo la batosta rimediata contro Hurkacz, forse ultimo Tango al Foro Italico, resterà negli annali non solo del torneo di Roma e sarà inevitabilmente la foto degli IBI24, nemmeno quelle del vincitore con la coppa in mano potranno superarla. È la storia di un torneo martoriato da mille disavventure e sfortune, quella di un probabile addio. È la vita.

    La forza di uomo che è andato oltre ogni limite umanamente comprensibile per arrivare a dominare il tennis sul rosso stride con quella di un tennista duramente battuto in campo da un ottimo giocatore, Hubi Hurkacz, ma non esattamente il più temibile su questi campi. Le parole secche, precise, scandite con dolore una dopo l’altra da Rafa nella confermata stampa post partita sono il segno della fine di un sogno, quello di tornare a sentirsi di nuovo un giocatore forte, uno che può vincere ancora, che può rinascere per la ennesima volta. No, stavolta non è così.
    Non sto così male, ma il mio tennis è stato questo. Devo accettarlo. Parole sue, istantanee brutali della presa di coscienza che stavolta sembra davvero finita, lo spazio per sognare non c’è. Due anni di assenza e il nuovo infortunio su di un fisico già segnato a mille ferite pesano troppo, quanto quelle gambe che cercando disperatamente trazione sul campo per sostenere la fruttata del braccio, ma non ce la fanno più come un tempo. Hurkacz ha tutto il tempo di cui abbisogna per spostare e tirare i suoi colpi veloci. Rafa non lo sa, o forse non lo vuole accettare, ma in questi due anni di assenza il tennis è andato avanti, anche senza lui, e va ancor più veloce. I suoi fendenti arrotati ma non così velenosi sono nulla per arginare la potenza di un giocatore forte e in salute. Questo Nadal, oggi, non è competitivo.
    Lui lo sa, benissimo. Lo accetta? Forse ancora no, ma ce la farà. Ha un’intelligenza troppo raffinata per non riuscirci. La voglia, il desiderio di ritornare ad essere quella visione di se stesso che non fermava davanti a niente, abbattendo ostacoli impossibili, cova in lui, è la sua forza e gli ha permesso di battere tutti i migliori e superarsi in anni di lavoro così duri che nemmeno nei Gulag sarebbero tollerati… Nadal è stato forza, potenza, resistenza, capacità di superare e superarsi con una durezza mai vista prima. È stato, non lo è più. La battuta d’arresto vs. Hubi è stato uno schiaffo morale fortissimo alle ultime ambizioni. Lui aveva parlato di voler salutare il suo mondo a modo suo. Vedendolo in campo la sensazione è stata altra. Lui, sotto sotto, ci credeva ancora. Credeva che la sua forza d’animo potesse continuare a sollevarlo dalle secche e riportarlo tra i grandi. È sempre stata la sua grandezza questa, gli ha permesso di arrivare lassù in cima. “Giochi ogni colpo peggio di Federer, ma se ci metti più grinta e intensità lo possiamo battere” ammoniva Zio Rafa nei primi anni. Così è stato.
    Giocherai ancora una partita Rafael, o forse dieci, prima di appendere la racchetta al chiodo. Ma mi piace pensare che quell’emozione vissuta coi miei occhi, brividi veri vedendo dalla passerella quella marea di gente ad abbracciarti, tutta per te, resterà la ultima del Nadal giocatore. L’ uomo che ha sollevato il mondo del tennis di peso portandolo di pura prepotenza su vette mai toccate prima. Buona vita.
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    Preoccupazione in Serbia per il futuro di Djokovic: ha “mollato la presa”?

    Novak Djokovic (foto Getty Images)

    La decisione di Novak Djokovic di non partecipare al Masters 1000 di Madrid ha diviso l’opinione pubblica in Serbia. Da un lato la constatazione che il n.1 del mondo non ama particolarmente il torneo spagnolo, l’ha disertato già altre volte, considerando le sue condizioni – in altura – troppo diverse da quelle di Parigi, dove nel 2024 si concentrano i suoi obiettivi: la difesa del trono di Roland Garros e il torneo Olimpico, l’unico vero vuoto rimasto nella sua incredibile carriera. Dall’altro lato alcuni dei commentatori più noti del paese dei Balcani sottolineano come la scarsa continuità di gioco non aiuterà il campione a ritrovare il suo miglior tennis. L’esempio è arrivato a Monte Carlo: dopo aver saltato Miami ed essersi allenato a casa sua sul rosso che conosce meglio, Novak ha giocato un tennis molto lontano dai giorni migliori, finendo battuto per la prima volta da Ruud, tennista che in carriera non l’aveva mai impensierito severamente.
    Sul media Sport Klub, il più seguito in Serbia, si è aperto un dibattito sulla situazione attuale di Djokovic. Mettendo sul tavolo tutti gli elementi, si ipotizzano scenari tutt’altro che rosei. Nel 2024 non ha ancora vinto un torneo; è arrivata l’improvvisa separazione da Goran Ivanisevic, personaggio di grande carattere e non sempre in linea col pensiero del suo assistito, ma indubbiamente grande professionista, decisivo nel miglioramento del servizio di Nole e grande motivatore; a questo, la scelta – vedremo se temporanea – di non ingaggiare un vero allenatore, affidandosi all’amico Zimonjic, che oggettivamente sembra più uno sparring che un’ipotesi di vero coach. Secondo alcuni osservatori, su Nova k ha pesato terribilmente la sconfitta patita da Sinner in Coppa Davis a Malaga: era il suo grande obiettivo di fine 2024, oltre alla delusione l’aver finito molto tardi l’annata l’ha portato a ritardare la ripresa della preparazione, con il risultato di essersi presentato in Australia con una forma deficitaria, un torneo non brillante terminato in semifinale ancora sotto i colpi poderosi di Jannik.
    In pratica in Serbia molti pensano che Novak abbia perso motivazione, quel fuoco sacro che nonostante l’età ormai avanzata gli permetteva di allenarsi meglio di tutti e far valere la propria immensa classe contro le nuove leve. Tutti a Belgrado si aspettavano un avvio di 2024 simile a suo post Wimbledon 2023: dopo la dura sconfitta patita da Alcaraz, Novak su spettacolare per come si riprese, alzò il livello e con grandissima grinta e classe dominò l’estate USA, vincendo a Cincinnati e US Open. Stavolta la “risposta” in campo di Djokovic all’avvento di Sinner è stata flebile e perdente.
    Djokovic ha sempre detto di voler continuare a giocare per scrivere nuovi record, non parlando mai di ritiro e anzi prendendo ad esempio campioni come gli statunitensi LeBron James o Tom Brady, due icone dello sport USA che hanno dominato ben oltre i 35 anni d’età. Tuttavia molti in Serbia hanno tirato fuori dal cassetto una frase sibillina pronunciata qualche tempo da Djokovic, nella quale affermava “tutto può cambiare repentinamente, dipende da come sta il mio corpo. Ammetto che a volte recuperare la fatica all’interno di un grande torneo non è più come anni fa, a volte hai dolore è non è facile ripresentarsi in campo al massimo. Sarà il mio corpo a indicare quando è il momento di smettere”. Giustificando il suo momento attuale, tra il non scegliere un nuovo coach e saltare alcuni tornei, Djokovic ha parlato del bisogno di stare di più in famiglia, e fanno notare in patria come nei suoi canali social ultimamente dominano le attività con i due figli e la moglie, o eventi ai quali prende parte, piuttosto che allenamenti o tornei.
    In Serbia non si parla d’altro. Siamo alle supposizioni, ovviamente, ma considerato tutti questi elementi c’è la sensazione che dopo quasi 20 anni di carriera a grandissimo livello, scrivendo record assoluti e praticamente imbattibili, forse Djokovic per la prima volta abbia un po’ mollato la presa. Con un tennis basato su grandi colpi ma soprattutto grandissima intensità fisica e durezza mentale, un quasi 37enne Nole può giocarsela alla pari con Sinner, Alcaraz e gli altri migliori, senza spingersi al suo 100%? Roma e soprattuto Parigi ce lo diranno.
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    Rune, Becker e… la fretta, a generare caos

    Rune in allenamento a Torino con Becker (foto M.Mazzoni)

    “La fretta è una cattiva consigliera”. La saggezza popolare quasi mai mente. Affrettare i tempi, non essere in grado di pazientare per compiere i passi giusti, difficilmente ti permette di arrivare lontano, o rende il viaggio scomodo, periglioso. Il turbinio di fatti, parole e cambiamenti nella vita sportiva di Holger Rune delle ultime settimane sembrano aver una linea comune nella sua fretta di arrivare in cima, dove sono sbarcati Alcaraz e Sinner, dove anche il danese vuole assolutamente arrivare. In fretta. Avvolgiamo il nastro dei ricordi di qualche mese, cercando di capirci qualcosa.
    Torino, ATP Finals. Chi scrive ha avuto la fortuna di assistere a bordo campo ad alcuni allenamenti di Holger, con il suo team al completo e mamma al seguito. Ne avevo già scritto nel corso del (bellissimo) torneo, ma il focus del racconto era sul gioco, su quel che Boris stava cercando di comunicare al suo giovane pupillo nelle prime settimane di lavoro insieme. C’era enorme curiosità per vederli all’opera, perché il tedesco è personaggio complesso ma mente fina nel vedere e analizzare il gioco, mentre Holger ha innata quella baldanza un po’ spaccona del “ora ti faccio vedere io”, con una mamma un tantino invadente sempre presente. Un triangolo scaleno, a dir poco esplosivo… E infatti, è esploso. Perché? 
    Quel che ricordo distintamente delle ore di training è la cura di Becker nel dettaglio. Alla fine di ogni sessione di palleggio, il campione di Wimbledon era prodigo di parole per Holger, sulla chiusura del colpo con la mano sinistra sul rovescio, sull’equilibrio al momento dell’impatto della risposta, su come caricare la racchetta al servizio. E via dicendo. Parole precise, dettagli che fanno da differenza. Rune ascoltava, forse. Non un cenno d’intensa, quasi mai un’occhiata sullo sguardo di Boris. Una comunicazione importante, ma a senso unico. Senza uno scambio. Solo scambiando pareri e sensazioni si cresce, il confronto è sempre necessario. Attenzione: magari Holger era poi un fiume in piena fuori dal campo, questo lo scrivente non può saperlo… ma era abbastanza netta la sensazione di un giovane pronto a spaccare la palla ad ogni colpo, meno ad ascoltare. Ancor più stridente il quadretto quando il danese si sedeva in panchina a bere e rifiatare. Con mamma, in rigoroso danese non comprensibile ai forestieri, dialoghi continui, con gesti di colpi e movimenti. Boris restava nei pressi della rete, a testa china sulle corde della sua racchetta. Evidentemente pensieroso. A vederlo così, pure un po’ zoppicante per i postumi delle sue caviglie martoriate da troppi scatti gladiatori da giocatore, sembrava triste. Quasi un ospite non desiderato. Affermazione un po’ forte, ma c’era la sensazione che questo triangolo non avrebbe funzionato.
    Facile pensare che sia stata mamma Aneke a spingere la rottura. Trapela dalla Danimarca che invece è tutta farina di Becker e soprattutto di Holger, tanto che mamma ha pure fatto un passo indietro, affidando la cura del figlio al colosso del management IMG, da pochi giorni responsabile dei contratti, scelte e mille cose del giovane top10, comunicazione inclusa. Holger ha scelto di svoltare, che il rapporto con Boris non funzionava, come quello a dir poco effimero con Luthi, durato il tempo di un brunch domenicale.
    Holger in una dichiarazione sui social scrive: “Dopo la fine del rapporto con Christensen, che durava da circa 15 anni, ho provato diverse soluzioni. In questo periodo ho capito cose mi serve per stare bene e per crescere tennisticamente come voglio. Per coltivare le mie ambizioni ho bisogno di avere al mio fianco professionisti che condividano la mia stessa visione. Persone di cui io mi possa fidare ciecamente, che siano sempre a mia disposizione. Questo è quel di cui ho bisogno affinché mi senta sicuro. Detto, tutto questo, ringrazio di cuore Lars, Severin e Boris: vi voglio bene”.
    Una dichiarazione d’intenti forte: si fa come dico io. Voglio qualcuno al fianco che mi aiuti, ma io ho il comando delle operazioni. In questo si spiega facilmente perché Boris ha mollato: pretendeva di metterci del suo, di spiegare a questo talento acerbo come sgrezzarsi, come tagliare zavorre per decollare. Come cambiare. Sicuramente Rune non condivideva il punto di vista di Becker, e addio è stato. Poco importa che il tedesco abbia fatto il primo passo, come il tutto si è rotto non lo sapremo mai. Quel che conta è che Rune ha scelto di correre con la sua visione, con la propria testa. E ha voglia di recuperare il tempo perduto rispetto ad Alcaraz prima e Sinner poi, rivali che oggi vede da lontano e che vuol disperatamente raggiungere.
    Il suo 2023 è stato ricco di alti e bassi, guastato da problemi alla schiena arrivati sulla terra battuta e che l’hanno penalizzato fino all’autunno. Difficile raccogliere ottimi risultati con un tennis muscolare come il suo senza essere a posto fisicamente. Ma lui ha forte, fortissimo in testa il suo autunno 2022. Quello dell’esplosione, quando ha randellato a destra e a manca spiazzando ogni rivale. Compiendo un record storico a Bercy, quando ha battuto 5 top10 in un torneo, roba pazzesca. Quel torneo, quel suo tennis, è la sua pietra angolare, è dove vuole essere. Non accetta di non esser più quello, che altri hanno fatto meglio e l’hanno superato. Lo si vede da tante piccole cose, come il disgraziato post social nel quale metteva con un cerchio rosso il campo periferico a US Open, rispetto alle grandi arene assegnate a Jannik e Carlos. Beh, in quel campo “dimenticato da Dio”, poi Holger c’ha lasciato le penne, quindi gli organizzatori del torneo non c’avevano visto poi così male…
    Questo piccolo episodio è uno dei vari nel quale il danese ha mostrato insofferenza per risultati non in linea con le sue aspettative. Questo il vero nocciolo del problema: forse è necessario che qualcuno, mamma (ma si è tirata indietro?), il nuovo coach, il nuovo management, faccia capire a Holger che ha tutto il potenziale per arrivarci lassù, magari scalzare pure Jannik e Carlos, ma che serve il tempo per curare al 100% il fisico, migliorare vari aspetti del suo gioco, ancora troppo altalenante e carente in alcune fasi, e la sua mentalità, ancora troppo rabbiosa e poco stabile. Forse proprio l’esempio di Sinner dovrebbe illuminarlo. Jannik è arrivato doveva voleva arrivare, a vincere tornei top e battere uno dopo l’altro tutti i top. Ma… ha faticato, ha capito dove non andava bene, si è preso il tempo per sbagliare e migliorare. Con questa fretta di farcela, Rune può solo incancrenire frustrazioni e problemi che, per un carattere un po’ “fumino” come il suo, rischiano al contrario di rallentare ancor più la sua scalata. Del resto, un ancestrale detto nei nativi americani recita “Chi corre sempre, saprà sempre meno cose di colui che resta calmo e riflette”. Già, la saggezza popolare…
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