La famiglia è la prima forma di società, la più elementare ma anche la più completa, al cui interno si svolgono tutte le dinamiche che gli studiosi di scienze comportamentali analizzano e divulgano. La Formula Uno, in quanto movimento globale e fenomeno culturale, fornisce uno spaccato esemplare delle dinamiche familiari: c’è la famiglia patriarcale tradizionale della Ferrari, che, nonostante i modelli sociali si siano evoluti come la tecnologia turboibrida e l’aerodinamica, resiste e persiste sfidando le bordate dei modelli concorrenti; c’è la famiglia multiculturale della Mercedes, un amalgama vincente formato da un pilota caraibico e uno finlandese, con un vertice tecnico italiano, un direttore inglese, un manager austriaco, carburanti malesi e passaporto tedesco; c’è la nobile famiglia decaduta McLaren, capitanata dal coraggioso hidalgo spagnolo, che non si batte più contro i mulini a vento ma sbatte miseramente contro le risultanze delle gallerie del vento; c’è la famiglia lacerata RedBull-Renault, i cui conflitti oramai esplodono come power units esauste, coinvolgono tutti, dai piloti-figli ai proprietari-nonni, dirompendo senza ritegno nello smisurato cortile del condominio Formula Uno.
La famiglia e la dimensione di rassicurante normalità che essa conduce con sé sono, dunque, diventate una parte integrante perfino di un mondo che non è né rassicurante né normale, come quello di chi per mestiere si cala in un costoso giocattolo di fibra di carbonio per gettarsi a velocità improponibili su budelli d’asfalto, assieme ad altri venti caimani. È il segno dei tempi: da quando la Formula Uno ha iniziato a bandire dapprima i tabacchi, poi gli alcolici, quindi le grid girls, anche il modello di cavaliere del rischio del secondo decennio degli anni Duemila si è evoluto di pari passo: dobbiamo dimenticare gli sfrontati guasconi a trecento circondati da belle ragazze procaci, che consumavano con la stessa velocità la loro vita fuori e dentro le piste, perché al loro posto sono arrivati i papà dal cuore tenero, che si circondano di piccoli, adoranti emuli dietro ai quali trotterellano armati di triciclo.
Da quando, poi, i social e il modus vivendi improntato alla condivisione di ogni spaccato del quotidiano ha pacificamente invaso anche il Circus iridato – nonostante le resistenze anacronistiche del bigotto zio Bernie – assieme ai sermoni modaiol-filosofici di Lewis Hamilton e alla sbarellata goliardia di Daniel Ricciardo la dimensione privata, personale e familiare di buon parte dei piloti arriva direttamente nelle bacheche dei followers e degli appassionati, i quali, a loro volta, con le loro condivisioni, ne alimentano la diffusione. Così abbiamo assistito agli esilaranti duetti fra lo stesso Ricciardo e l’adorabile Felipinho, il figlio di Felipe Massa, il quale – come lo stesso pilota australiano ha dichiarato tempo fa – gli fa rivivere quella sensazione calda e amorevole di quando viveva in famiglia, ora che, per lavoro, deve risiedere dall’altra parte del globo. Ci siamo liquefatti in brodo di giuggiole di fronte agli occhioni dei piccoli Tomas e Joaquim, protagonisti di due edizioni consecutive del Gran Premio di Spagna, mente siamo riusciti quasi a perdonare Grosjean lo sfasciacarrozze quando Romain il papà ha pubblicato il disegno che il suo bambino Sacha gli ha imposto di portare con sé e fotografare in giro per il mondo, per farlo sentire meno solo. Sebastian Vettel scappa appena può in famiglia, a tagliare il prato e a giocare con le due figliolette, un po’ come Nico Rosberg venne avvistato a curiosare al Rally di Montecarlo mentre spingeva, premuroso, la carrozzina con la sua bimba addormentata.
Tutto questo è pacificamente accettato, visto come un’evoluzione dei valori sociali, da Fast&Furious a petaloso. Ma ora ditemi – e siate sinceri – in quanti si sarebbero aspettati che Iceman Kimi Raikkonen, mr. Vodka e staccate assassine, il più talentuoso signor Resto Quel Che Sono della Formula Uno, uno che sembrava sbattersi solo per andare veloce e che di tutto il resto se ne sbatteva, si sarebbe trasformato in uno spot vivente del ministero della famiglia finlandese. In quanti avrebbero previsto che Iceman si sarebbe sciolto grazie a due pulcini biondi, i suoi piccoli Robin e Rianna, diventando l’emblema della Formula Uno family-friedly? Pochissimi, credo.
Molte delle sue più accanite ammiratrici, devote al culto del bel biondo tenebroso dallo sguardo straccia-inibizioni, e molti appassionati, adepti del ferrarismo di rito raikkoniano o devoti all’icona di Jenny Dahlman, miss Scandinavia, sua prima notevolissima consorte, poco si raccapezzano con questo nuovo corso del Raikkonen papà affettuoso, sorridente e giocherellone, nonché marito adorante di una bella sconosciuta. Si chiedono, smarriti, perché, a causa di Kiss me Minttu, il loro Kimi si sia trasformato in una versione affidabile e con più dignità di Mirko dei Bee Hive, quale appare da Instagram, dove addirittura canticchia o si rotola in piscina.
Appunto, Instagram. Kimi Raikkonen, il più schivo, refrattario a ogni genere di tendenza o moda, da quando ha inaugurato il suo account, ha reso il social fotografico un mondo migliore. Dal manifesto I’m a wallpaper alla crociata live contro i gatti che invadono la sabbiera dove giocano i bambini, con qualche iconica incursione fra podi e bandiere col Cavallino, Kimi ha – udite udite – organizzato una diretta per rispondere alle domande dei suoi fan, condiviso pensieri romantici in occasione di anniversari e ricorrenze, celebrato il compleanno del compagno di team Vettel e diffuso immagini del suo salotto o della sua cucina come l’ultimo dei social-addicted.
Roba da gridare all’eresia, dal temere l’asteroide che ci cancellerà o il ritorno di Ecclestone come padrone del Circus.
Ma quel che veramente ci fa intravedere un Raikkonen ben diverso da come lo conoscevamo – o credevamo di conoscerlo – è lo spaccato di vita condiviso con i suoi bambini, in particolare con Robin, il simpatico piccolo teppista che scorrazza nei paddock con il suo monopattino e chiede, pretende attenzioni come il più normale bambino di tre anni del mondo, incurante del fatto che il padre debba disputare una qualifica bagnata o che debba sistemare i set up della monoposto. Un padre che, nonostante la sua fama di carattere scostante, poco propenso verso la stampa, con grande naturalezza afferma, invece, in un’intervista, che la vita vera comincia con i figli, che sono le loro domande a suggerire il senso delle cose e che si apprezza davvero il tempo quando lo si condivide con loro. Anche se fai il mestiere più invidiato del mondo, se sei un pilota della Ferrari: così come Vettel qualche settimana fa, anche Raikkonen ribadisce che la sua persona è cosa ben diversa e separata da quel che fa per vivere.
Io faccio il pilota, non sono un pilota. Una dichiarazione che è una rivoluzione paradigmatica se confrontata con le eroiche citazioni dei cavalieri pronti a morire per inseguire il loro sogno fatto di velocità e ruote fumanti, il loro essere piloti al di sopra di tutto, anche della stessa vita, figuriamoci delle mogli lasciate a trepidare in un angolo dei box o dei figli dimenticati in qualche villa. Una dichiarazione che in qualche modo spalma uno strato di normalità a lenire le ferite di uno sport dove ancora i ragazzi muoiono per assurde e tragiche fatalità, prima di diventare uomini oltre che campioni.
Forse è proprio di questa normalità, di questa prepotente dimensione familiare, che uno sport a volte gelidamente tecnologico aveva bisogno. Che la Formula Uno si umanizzi, grazie ai figli dei piloti, che vogliono salire sul podio e guidare la macchina rossa come fa papà, e che avvicini le famiglie alle tribune dei circuiti attraverso le famiglie di chi corre in pista. Non sarà ortodosso, ma aiuterà i fan più superficiali a capire che dietro quelle macchine, quei caschi e quelle manovre ci sono uomini, padri, mariti che amano quel che fanno ma ancor più amano quel che sono, per cui svilire questo messaggio con vuote polemiche o ridicole risse e partigianerie è davvero privo di senso.
Avevamo donne e motori, abbiamo casa e famiglia. Ma infondo Robin Raikkonen non fa altro che ricordarci, con la sua presenza innocente e allegra, che il giorno in cui smetteremo di guardare la Formula Uno e tutto quel che amiamo con gli occhi trasparenti di un bambino e di emozionarci con lo stesso genuino trasporto sarà il giorno in cui dovremo cambiare sport. O quello in cui dovremo cambiare noi.