Lutto nel mondo del tennis. Si è spenta a 89 anni Lea Pericoli, leggenda del nostro sport, prima da tennista poi da ambasciatrice della disciplina. Regina di stile e classe in campo, è stata campionessa italiana per 27 volte tra titoli in singolare, doppio e doppio misto. I migliori risultati in carriera li ha ottenuti a Roland Garros, dove ha raggiunto gli ottavi di finale per 4 volte (1955, 1960, 1964 e 1971) e poi a Wimbledon, sempre ottavi in tre edizioni dei Championships (1965, 1967 e 1970).
È stata la miglior tennista italiano dalla fine degli anni ’50 alla metà degli anni ’70. Agli Internazionali d’Italia ha raggiunto la semifinale nel 1967, per quattro volte i quarti di finale e in doppio insieme aSilvana Lazzarino ha giocato ben cinque finali (dal 1962 al 1965 e nel 1967).
Nata ad Addis Abeba, dove la famiglia si era trasferita in seguito alla Guerra d’Etiopia, inizia proprio in Africa la sua pratica del tennis grazie al padre. Girò il mondo per studiare, e rientrata in Italia prima di compiere 18 anni scelse di praticare il tennis come strada per la sua vita. Sconfisse per due volte il cancro, nel 1973 (all’utero) e poi nel 2012 (al seno). Guerriera in campo e nella vita.
In quegli anni era anche una delle tenniste più ammirate al mondo per la sua bellezza, esaltata da completini da gioco per quell’epoca assai arditi, con pizzi e un design iconico ideato dai più famosi stilisti dell’epoca, che l’ha resa famosissima a livello globale. Racconta Lea in merito a quest’aspetto della sua popolarità (tratto dal sito FITP, ndr): “Io cominciai a farmele fare da subito, le mutandine col pizzo: mi piaceva indossare cose carine. L’anno della partita con la Connolly al Foro Italico c’era chi mi lanciava frecciatine perché giravo sempre con Dinny Pails, il campione australiano divenuto poi grande tencico. Dicevano che si era perdutamente innamorato di me. La verità è che ero l’unica che parlava inglese e quando mi conobbe chiese subito alla Federazione che gli facessi da interprete. Così finì che quando i professionisti venivano in Italia (allora c’era ancora la divisione tra i pochissimi ‘pro’ e il modo del tennis dei dilettanti, il mio…), i vari Victor Seixas, Tony Trabert, io giravo con loro. Facevo da interprete. Ero arrivata in Italia a 15 anni, nel 1950. La Connolly era una campionessa di cui avevo già sentito parlare quando ancora vivevo in Africa, ad Addis Abeba. Avevo vinto subito i campionati juniores. E subito mi aveva acchiappato Umberto Mezzanotte, il direttore della rivista Il Tennis Italiano. Ero quella che giocava con me mutande di pizzo. Il primo torneo, mi ricordo, l’avevo giocato a Focette. E la voce si era sparsa. “Uh, gioca l’abissina…” dicevano, “gioca benissimo…”. Venivano a vedermi. Arrivò anche Fausto Gardini, il campione italiano. Si presentò e mi disse “Non faresti una foto con me?”. “Certamente” risposi. Una foto con Gardini? Io impazzivo. Mi mise in mano una bella confezione di dentifricio Binaca. Quell’immagine uscì con la didascalia: Fausto Gardini premia Lea Pericoli con i dentifrici Binaca. Su tutti i giornali italiani venne lanciata una campagna. Per i dilettanti erano cose vietate. Gardini fu squalificato e io venni chiamata da Enrico Piccardo, il segretario della Federazione, un uomo piccolo di statura, tremendo. Io ero tutta contenta di essere chiamata in Federazione. Lui mi disse: ‘Signorina Pericoli, lei è venuta in Italia ha giocato e vinto i Campionati juniores da non qualificata, ha fatto la reclam della Binaca, ha dato scandalo con le mutandine di pizzo a Wimbledon. O lei mi promette che esce da quella porta e non gioca piú a tennis…. Altrimenti la squalifico a vita’. Io spaventatissima promisi. Poi figurati…”.
“Come ti dicevo, io le mutande di pizzo per giocare me le ero fatte fare sin dall’inizio, da mia mamma o da una sartina. Volevo essere appariscente, ero vanitosetta. Quelle non erano state un’idea di Ted Tinling, lo stilista londinese. Tinling mi vestì per Wimbledon. Successe la fine del mondo. Mi ricordo qulla partita contro la spagnola Maria Josefa de Riba. Io non so come avessero fatto i fotografi ad andarsi a sdraiare dietro il fondocampo per fotografarmi…. Papà si infuriò. E, lì per lì, mi face smettere. Per me comunque era uno svago, il mio divertimento. Dovevo pagarlo di tasca mia. Lavoravo. Quando lasciammo l’Africa, la mia famiglia che là era molto benestante (intorno a casa avevamo un parco col campo da tennis…) dovette ridimensionarsi. L’azienda di mio padre era persa. Il primo lavoro lo trovai da sola. Mi iscrissi a un corso privato, un istituto di Piazza del Duomo dove insegnavano lingue, dattilografia. Chi mi dava lezione, un certo Mr Ottino, non faceva quello di mestiere: aveva un ufficio di Import Export. Capì che ero sveglia, vide come me la cavavo con l’inglese e disse: è inutile che fai un corso. Ti do l’attestato subito e alla fine del trimestre vieni a lavorare da me. E cosí feci, di corsa”.
(..) “Quando ci ripenso ritorno per un attimo dentro un mondo pieno di magia. Io non ho mai avuto un coach. Per allenarmi dovevo trovare giocatori maschi di terza categoria che avessero voglia di giocare dall’una alle due perché io lavoravo. Oppure alla mattina dalle 8 alle 9: poi doccia e via con la Vespa per andare in ufficio. E nelle serate romane, approfittavamo della folle passione tennistica di tanti personaggi famosi. Uno per esempio era Dino Verde, l’autore televisivo. Un altro l’attore Umberto Orsini , altro ‘maniaco’ di tennis. Facevamo persino dei doppi improbabili con una posta in palio. E così guadagnavamo pure qualcosa. Poi ci portavano fuori a cena. Eravamo giovani, ragazzi senza una lira. Ma felici”.
Fu importante anche nella diffusione del tennis, con le sue telecronache su Telemontecarlo. Negli ultimi anni, insieme a Nicola Pietrangeli, ha promosso il tennis in infinite manifestazioni, con la sua solita classe umana e sportiva. Sorridente e sempre garbata, è stata l’immagine del nostro sport per decenni.
Marco Mazzoni