In punta di piedi, senza fare rumore. Esattamente come Filip approcciava la palla con leggerezza, dando l’impressione di esser lento pur non essendolo affatto. Così Filip Krajinovic ha salutato il tour Pro nelle “quali” di US Open, perdendo il suo ultimo match contro Rodionov. Il 32enne di Sombor ha deciso di chiudere una carriera iniziata assai tardi a livello massimo e durata poi non così tanto, pure guastata dall’arrivo del Covid e un serio infortunio al polso, che l’ha fatto scivolare nelle retrovie facendogli perdere mordente e quella “fame” necessaria a rimettersi in pista in un mondo così duro a livello di competizione. È durato solo 71 minuti il suo ultimo ballo, Rodionov l’ha battuto 6-4 6-2. Sipario.
“Ho lottato per l’ultimo anno e mezzo, pensando a cosa fare” racconta Krajinovic al sito ATP. “Non ero soddisfatto della mia forma. Non ero soddisfatto del mio corpo e non giocavo al livello che volevo. Sono calato molto. Ho deciso di dire basta dopo gli US Open. Inutile nasconderlo, ero davvero, davvero triste dopo la sconfitta. Sono riuscito a mala pena a giocare. Piangevo in campo perché per tutta la vita giochi e sei in competizione, quindi non è stato facile dire addio, ma allo stesso tempo sono felice di essermi liberato da quello che era diventato quasi un peso”.
“Quando ti ritrovi a giocare piccoli tornei dopo anni al massimo livello, la motivazione non è la stessa. Semplicemente non mi sentivo bene, non ero contento e non avevo abbastanza fame. Se non sei al 100% con tutto quel che hai, non hai possibilità di tornare dove volevo essere. Sentivo che non mi divertivo e ho sentito che in questo modo diventava impossibile tornare dove volevo essere, sicuramente nella top 50”.
Gli amici di sempre, i connazionali Troicki, Kecmanovic, Lajovic e altri erano lì con lui sul campo 4 di Flushing Meadows, per accompagnare il suo ultimo incontro. Filip è sempre stato un ragazzo gentile, garbato, uno che non urla mai e riflette. Una buona parola per tutti, mai fuori dagli schemi. Un comportamento impeccabile a livello umano che l’ha reso benvoluto e stimato dai colleghi.
Tennis fluido ed elegante, molti l’hanno un po’ paragonato a una sorta di Kafelnikov dei nostri tempi, con quel passo felpato, la sensazione di non fare fatica nel colpire la palla e la pulizia all’impatto. Quando sbarcò da giovane all’Academy di Bollettieri, il grande Nick si spese in previsioni eccezionali per lui. Grande tennista, anzi, giocatore bello da vedere, ma forse meno efficace di altri per un spirito non così furente nella lotta e forse anche un fisico non così resistente, o chissà un po’ meno allenato di quel che avrebbe potuto. Tant’è che Filip è esploso molto tardi rispetto al suo potenziale, in quel di Paris-Bercy 2017 dove clamorosamente si issò in finale, in quello che resta il suo miglior torneo in carriera. Il mondo si accorse di questo ragazzo mite, che con la palla poteva centrare le riga o la classica monetina tanto era preciso nell’impatto.
Da quel torneo mitico per lui, è iniziata la sua vera carriera, che l’ha portato a diventare n.26 al mondo nella primavera seguente, ma con frequenti fastidi fisici e il cruccio di non aver mai vinto un torneo. Questo il rammarico di Krajinovic, più che la tarda esplosione al massimo livello. “Sono molto orgoglioso della mia carriera”, commenta Krajinovic. “L’unica cosa per cui sono un po’ triste è non aver vinto un titolo ATP. Ho avuto cinque finali, cinque finali difficili. Questa è l’unica cosa che volevo ma per qualche motivo non è successo. Ma firmerei per ripetere tutto il resto perché penso di aver giocato come volevo. Ho avuto ottimi risultati e il mio massimo è stato toccare il n.26, cosa che apprezzo molto. Ho lasciato il campo felice, perché penso di aver fatto bene”.
Quando Krajinovic aveva 14 anni, lasciò la Serbia per la Florida per allenarsi all’IMG Academy e inseguire il suo sogno di diventare un tennista professionista. I compagni di allenamento erano Kei Nishikori, Max Mirnyi e Radek Stepanek, avevano il livello che un giorno sperava di raggiungere. Quasi due decenni dopo, alla fine di una carriera più che discreta sul tour, si sta preparando a volare di nuovo a Bradenton per visitare il luogo in cui è iniziato il suo viaggio. Nostalgia o una porta sul proprio futuro? Non lo dice… “Non è stato facile. Sono arrivato negli Stati Uniti quando avevo 14 anni, da solo, senza nessuno. Sono andato a quell’Accademia e non sapevo niente. Non sapevo parlare inglese, quello è stato il mio più grande problema quando sono sbarcato lì. È stato difficile, ma allo stesso tempo è stato molto, molto bello, perché sapevo che era la mia opportunità per migliorare e allenarmi con quei ragazzi. È stato incredibile”.
Resterà sempre il dubbio se abbia tratto o meno il massimo dal suo potenziale. Forse no. Alla fine il tennis è uno sport maledettamente complicato, dove per arrivare in alto e restarci serve una durezza di fisico e d’animo che appartiene a pochi. Forse non al “Kraji”, ma certamente con il suo tennis leggero e geometrico ha deliziato i palati di chi ama un gioco meno muscolare e, se vogliamo, più poetico. Buona vita, Filip!
Marco Mazzoni