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ACB – Achille Polonara si racconta su Instagram:«Volevo l'Eurolega, sto vivendo il mio sogno»

ACB - Achille Polonara si racconta su Instagram:«Volevo l'Eurolega, sto vivendo il mio sogno»

L’avventura in Spagna con la canotta del Baskonia, il sogno raggiunto di giocare l’Eurolega, il ricordo di Sassari e quello di Teramo…le sue origini. Achille Polonara si racconta nel corso della Q&A delle storie Instagram di “Schiaccio e Non Faccio Fatica”, la community per gli appassionati del mondo diviso a spicchi lanciata dai ragazzi di “Che Fatica La Vita Da Bomber”.

L’emergenza del Coronavirus ha cristallizzato anche il mondo dello sport, Italia e Spagna nel vecchio continente sono state le nazioni più colpite dal contagio. Facile comprendere e accettare la scelta della LBA di dichiarare chiuso il campionato: «Hanno reputato fosse quella più giusta e sicura–commenta Polonara -. Stiamo vivendo un periodo difficile, hanno preferito evitare alle squadre rischiosi spostamenti, penso a Sassari e alle trasferte che avrebbe dovuto sostenere in aereo, al contatto con gli aeroporti. Giocare a porte chiuse poi, senza pubblico, non è il massimo».

In Spagna il dibattito sulla ripresa è ancora aperto. La Liga ACB, la massima divisione di pallacanestro, sta valutando un piano alternativo per portare ai titoli di coda il torneo e decretare un vincitore: dodici squadre, due gironi e un tabellone lanciato fino alla finale.

«Una soluzione tutti contro tutti – spiega Polonara -, con le prime due squadre per punti che superano il girone. Ma è tutto ancora da decidere. Anche qui in Spagna la situazione non è ancora tranquilla, dobbiamo aspettare il calo dei contagi».

Se si tornerà in campo sarà in ogni caso a porte chiuse. Achille si schiera dalla parte di tutti i suoi colleghi: «Ho avuto la fortuna di giocare sempre con la presenza dei tifosi. Chi ha vissuto esperienze analoghe mi ha raccontato di una sensazione particolare, simile a quando si affronta una partitella di allenamento. L’atmosfera è quella, oltre alle voci degli allenatori si sentono solo i fischi dell’arbitro. E poi atleti molto emotivi come lo sono io sono abituati a caricarsi proprio grazie alla tifoseria, a volte anche ai cori contro provenienti dal pubblico avversario…».

In estate la scelta di lasciare Sassari e volare al Baskonia, a Vitoria, ma più che un aereo Achille non voleva perdere il treno: «È stata una chiamata inaspettata, dovevo salirci, a 28 anni opportunità del genere non arrivano tutti i giorni. Ho scelto questa via e mi è dispiaciuto molto lasciare la Dinamo. Sognavo il palcoscenico dell’Eurolega, volevo mettermi in gioco a un livello altissimo. Qui prepariamo una partita dietro l’altra: qualsiasi giocatore di basket direbbe “molto meglio giocare che allenarsi tutta la settimana”. Il tempo passa prima e ti diverti di più».

Parli di Sassari e scatta il momento amarcord: «In Sardegna ho passato due anni fantastici. Mi hanno fatto sentire a casa dal primo giorno, come se fossi uno di loro da dieci anni. Questo mi ha aiutato molto. La scorsa stagione ci è mancata la ciliegina sulla torta ma è stata importante lo stesso, con la vittoria della prima coppa europea della Dinamo. In Germania per la partita decisiva ci hanno seguito 300 sassaresi, con un palazzetto più grande sarebbero stati in migliaia. Un’atmosfera surreale».

Inevitabile un passaggio sul Poz, Gianmarco Pozzecco, il coach che ha ribaltato Sassari riportandola al vertice in pochi mesi: «Con lui mi sono trovato benissimo, ma a domanda risponderebbe tutti così. È arrivato e ha fatto sentire tutti a proprio agio, ha trasmesso fiducia al gruppo, quella leggerezza mentale che in quel momento mancava. Eravamo una buonissima squadra con nomi di livello e infatti abbiamo fatto una grande stagione. Quando abbiamo vinto la coppa mi ha lasciato la sua carta di credito – ricorda col sorriso –, andai a cena con Erika (oggi sua moglie, ndr) e Gentile ma non la usai. Non abbiamo scroccato la cena al Poz».

Dell’Italia gli manca tutto, «la famiglia, il cibo, gli amici». Tra i tanti conosciuti sul parquet Marco Spissu e Andrea De Nicolao, suo coetaneo, «due ragazzi con cui vado d’accordo anche nella vita di tutti i giorni, stessi hobby e stesse passioni. Sono due playmaker, anche in campo mi hanno dato tanto».

Con Spissu poi se non era basket era calcio, a FIFA sul divano di casa: «Ho comprato la Play Station per allenarmi e migliorare, ma il mio livello si alzava pochissimo e ci ho rinunciato».

Il basket in Spagna ha un seguito maggiore rispetto al Bel paese: «Sono in una delle migliori squadre spagnole, qui l’organizzazione è incredibile, c’è grande ambizione e tanto entusiasmo. Il roster è di alto livello e nonostante tutto non c’è mai un grande pressing sulla squadra. Rappresentiamo il terzo o il quarto budget della categoria, di certo non possiamo arrivare ultimi ma nei momenti più difficili non ci sono mai state tensioni tra tifosi e Società. In Italia mancano un po’ le strutture e probabilmente i soldi, non si investe molto nei Settori Giovanili, qui invece anche le squadre di bassa classifica credono nei giovani, li fanno crescere fino alla Prima Squadra, un traguardo da raggiungere il prima possibile».

L’Italia da sempre è terra per calciofili: «Prevale sicuramente il calcio, sui giornali venticinque pagine su trenta sono dedicate a un unico sport, questo non aiuta. Basti pensare che qui in Spagna le partite vengono trasmesse su Movistar, una piattaforma pay tv simile a Sky. Qui il basket gode di più visibilità anche a livello televisivo».

L’amore di Polonara per la pallacanestro è dato quando era ragazzino: «Grazie a mio fratello che ha sette anni più di me e che trascinava tutta la famiglia durante le partite. Ricordo chilometri di viaggio,sono praticamente nato su un campo. Abbiamo un rapporto bellissimo e appunto questa passione che ci accomuna. Ancona (dove è nato Achille, ndr) non vive di pane e basket, senza di lui forse avrei preso altre vie. Magari avrei giocato a calcio, avrei forse fatto il portiere, da ragazzino gli amici mi mettevano in porta per via dell’altezza».

Sulle sue orme marciano molti giovani prospetti italiani, futuro del basket anche oltre confine: «Penso a Matteo Spagnolo che oggi gioca al Real, ma anche a “Nico” Mannion che ho conosciuto in Nazionale e che mi ha impressionato per talento ed esplosività. E poi c’è Leonardo Totè e Andrea Pecchia che stanno facendo molto bene in Serie A. Hanno dimostrato di valere la categoria in cui giocano. A 19 anni sono stato fortunato grazie a coach Andrea Capobianco e a coach Alessandro Ramagli: mi hanno dato fiducia e io sono riuscito a ripagarla.Potrebbe accadere a tanti altri ragazzi che come me hanno scelto questo sport. Spesso in Italia si firmano americani che non valgono tanto di più rispetto ai nostri giovani».

Restare sotto i riflettori dell’Eurolega è oggi il suo obiettivo personale numero uno. Al Baskonia magari: «Se la pandemia non avesse fermato tutto probabilmente avremmo centrato i Playoff, avremmo avuto qualche chance. Il momento migliore quest’anno è coinciso con la vittoria a Madrid contro il Real – ricorda Achille -. Stavamo attraversando un periodo un po’ così, a vittorie clamorose alternavamo sconfitte pesanti. Quella è stata una sfida importante tra due squadre storicamente rivali. E poi anch’io ho giocato bene».

Il compagno che in carriera lo ha impressionato di più condivide il suo stesso spogliatoio: «Tornike Shengelia, tra i quattro giocatori più forti in Europa. Mi ha colpito la sua dedizione e la forza di volontà. Arriva sempre prima di tutti in palestra, nel giorno libero si allena, chiede al coach di restare in campo per concentrarsi su sessioni di tiro extra. È un vero esempio».

L’allenatore numero uno invece Dusko Ivanovic, da dicembre nuovo head coach dei rossoblù di Vitoria, «tatticamente e tecnicamente il migliore». Senza dimenticare i volti del passato: «Non sarei qui – racconta ancora Polonara –senza la fiducia che mi diedero Capobianco e Ramagli».

Invece, dieci anni fa quei “maestri” scrissero per Achille un primo capitolo da far brillare gli occhi, l’inizio migliore, sulle mani l’impronta di centinaia di palloni e sulla schiena ben impresso il numero 33: «Lo scelsi – conclude – per non essere troppo scontato». Con è stata ed è tutt’oggi la sua carriera. Sempre in salita e mai banale. Proprio come l’aveva sognata: differente.

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