L’ala di origine serba, messi alle spalle i postumi di un lungo infortunio, è pronta a riscattarsi con le Vu nere dopo una stagione non esaltante a Schio
Milica Micovic
Quando, verso la metà degli anni ‘90, la famiglia Micovic decise di lasciare la Serbia con destinazione Parma alla ricerca di un futuro migliore, probabilmente né Milica né Marija immaginavano che avrebbero entrambe fatto strada nel mondo della pallacanestro, trasformando una passione in una ragione di vita.
Marija, dopo aver abbandonato l’attività agonistica, continua a dedicarsi anima e corpo alla pallacanestro da allenatrice. Milica, di smettere, proprio non vuole saperne. Anzi. A 35 anni e dopo aver girato l’Italia dal nord al sud, vestendo tra le altre le maglie di quelle che ad oggi sono le formazioni più forti della penisola (Ragusa, Venezia, Schio), ha ora la possibilità di realizzare il sogno di ogni atleta: giocare (e vincere) con la squadra del cuore, la Virtus Bologna.
Ala di 182 cm, dotata di un ottimo tiro dalla media e lunga distanza, Micovic è chiamata a contribuire, con la sua esperienza, alla crescita di un gruppo ambizioso ma ancora acerbo.
Partiamo dalla partita di ieri, persa ad Empoli per 77-66. Gara equilibrata per oltre tre quarti, contro una squadra che, soprattutto tra le mura amiche, riesce ad esprimersi al meglio. Cosa vi è mancato per poter tornare a casa con i due punti in tasca?
“La nostra è una squadra priva di esperienza a questi livelli, che gioca molto d’istinto e fa della grinta e della determinazione le sue qualità migliori. Nei momenti decisivi però bisogna giocare ogni possesso con raziocinio, usare la testa senza che prenda il sopravvento l’ansia di volere, in un’unica azione, capovolgere il risultato o dare il colpo di grazia all’avversario. Nell’ultimo quarto questa capacità di gestire le fasi importanti del match è venuta meno ed Empoli ne ha approfittato per piazzare il break decisivo. Sono aspetti sui quali dovremo lavorare molto, abbiamo ampi margini di miglioramento”.
A livello individuale, invece, segnali più che positivi. 17 punti con buone percentuali al tiro e soprattutto oltre 25 minuti in campo. Segno che stai man mano ritrovando la migliore condizione dopo l’infortunio, il conseguente intervento chirurgico e la riabilitazione che ti hanno frenato negli ultimi due anni.
“Sono molto contenta del fatto che finalmente inizio a riconoscermi sul campo. Ovviamente sono ancora in fase di recupero a livello fisico, ho nelle gambe solo una settimana di allenamento con la squadra, ma le sensazioni sono buone. La condizione migliora di seduta in seduta e il mio obiettivo è acquisire il prima possibile la forma migliore”.
Vieni da una stagione non facile, nella quale hai visto poco il campo. L’opportunità di giocare con Schio, la squadra più forte d’Italia, arrivata però nel momento sbagliato.
“Credo che se vieni ingaggiata da Schio devi essere al 100% per poter giocare al meglio le tue carte. Ero reduce da un intervento chirurgico e durante la fase di riabilitazione ci sono stati diversi intoppi che non mi hanno permesso di offrire alla squadra il contributo che avrei voluto. Dal punto di vista della carriera devo ammettere che è stato un anno da dimenticare”.
Come è nata l’opportunità di vestire la maglia della Virtus e cosa ti ha convinto ad accettare l’offerta?
“Con Bologna ho un rapporto speciale da almeno dodici anni, dalla mia prima esperienza nel capoluogo emiliano in A2 con la Libertas. Quando quest’estate ho letto della volontà di voler far nascere la sezione femminile della Virtus, ho subito pensato a quanto sarebbe stato bello tornare a Bologna vestendo i colori della mia squadra del cuore. Quando poi è arrivata la chiamata di Federica Nannucci (oggi dirigente responsabile della Segafredo Bologna, ndr), mia compagna ai tempi dell’esperienza alla Libertas e mia carissima amica, ho accettato senza esitare un attimo. Vivo a Parma e avere la possibilità di giocare vicino casa ha avuto un ruolo importante nella mia scelta, così come il blasone della società, che seguo da tifosa dai tempi di Danilovic”.
A proposito, hai avuto modo di conoscere di persona il tuoi connazionali Teodosic e Markovic?
“Non ancora – afferma sorridendo Milica – sicuramente ci sarà l’occasione, ma per me già poter ammirare dal vivo, al palazzetto, il talento di Teodosic è qualcosa di meraviglioso”.
L’idea di Luca Baraldi è quella di far seguire alla squadra femminile lo stesso cammino intrapreso dalla maschile, portandola ai vertici della pallacanestro nazionale ed europea. E’, naturalmente, un progetto a medio e lungo termine. Per l’immediato, dove credi possa arrivare la Virtus?
“Dobbiamo intraprendere un percorso di crescita che passa necessariamente per una maggiore consapevolezza dei nostri mezzi, senza avere paura o soggezione delle avversarie. Ciò che dico sempre alle mie compagne è di pensare alle atlete che affrontiamo unicamente per quello che sono, esseri umani come noi. In campo non scendono gli scudetti o le coppe, ma persone con pregi e difetti. E noi abbiamo le qualità tecniche e caratteriali per mettere in difficoltà chiunque. Non credo che questa squadra sia da playout. Non voglio sbilanciarmi, ma sono convinta che abbiamo le carte in regole per fare una buona stagione”.
A parte Bologna, per la quale abbiamo capito nutri un vero e proprio sentimento d’amore, quali altre città nelle quali hai giocato porti nel cuore?
“Da ogni luogo nel quale mi sono fermata a giocare posso dire di aver preso qualcosa da aggiungere al mio bagaglio di ricordi, emozioni e crescita professionale. Le città alle quali sono più legata sono Ragusa e Cagliari. Sono città di mare e io adoro il mare. Poi mi ha sempre impressionato e rapito il carattere della gente del sud, uomini e donne di cuore che ti fanno sentire a casa”.
Hai dimenticato Napoli…
“Napoli non la nomino nemmeno perché è un mondo a parte. Ci ho vissuto due anni e non trovo parole per descriverne la meraviglia”.
Non tutto, però, è rose e fiori. Hai vissuto anche situazioni difficili e cocenti delusioni.
“Ci sono momenti nei quali da giocatore ti rendi conto di essere trattato non da essere umano ma da oggetto. Vieni spremuto fino a quando sei ritenuto utile e nel momento in cui, per un motivo o per un altro, smetti di esserlo semplicemente finisci per essere accantonato, messo da parte. Mi è capitato quando ero più giovane a Parma e purtroppo mi è ricapitato, all’età di 33 anni, a Venezia. Dopo l’infortunio, per un anno intero, da novembre a fine stagione, ho stretto i denti posticipando, in accordo con la società, l’intervento chirurgico. Giocavo non più di 10 minuti a partita perché il dolore era forte. L’ho fatto con la promessa del rinnovo del contratto e della riabilitazione da sostenere a Venezia e poi mi è stato dato il benservito. Mi si è spezzato il cuore, per due anni ho dato tanto alla società e non credevo di meritare il trattamento ricevuto. Questo è solo un esempio, perché capita molto spesso in questo sport – e non solo – di dimenticare il lato umano e guardare solo al profitto”.
Un discorso che si riallaccia a quello molto più ampio della decennale battaglia per attribuire finalmente lo status di professionista alle atlete.
“Facciamo una vita da professioniste ma siamo trattate da dilettanti, pur dando molto di più degli uomini – afferma Milica con un sorriso amaro – Nella vita quotidiana, non solo in quella sportiva, una donna fa sempre il triplo dell’uomo. E poi quando proviamo a far valere i nostri diritti veniamo emarginate, messe da parte, marchiate come quelle che creano problemi. Molte di noi per quieto vivere chinano il capo e accettano situazioni difficilmente tollerabili. Un atteggiamento controproducente. Se ognuna di noi alzasse la voce per far valere i propri diritti probabilmente chi si trova nelle posizioni di vertice nel mondo dello sport sarebbe costretto ad ascoltare. E qualcosa potrebbe finalmente cambiare”.