Il calendario della stagione tennistica è il vero nodo della disciplina, un problema atavico al quale è necessario porre rimedio con un intervento “importante” e scelte coraggiose, ma l’ipotesi di iniziare l’annata a gennaio con un Masters e WTA 1000 in Arabia non è la soluzione, sarebbe l’ennesimo errore e terribile complicazione. Potrebbe trasformarsi in una sorta di Shinkansen che rischia di traghettare la disciplina verso un buco nero. È bene andare dritti al punto, senza girarci troppo intorno.
Nell’ambiente da tempo girano voci “inquietanti”, connesse alle sterminate risorse dei famigerati fondi d’investimento sauditi, arricchitisi a dismisura con tonnellate di petroldollari e che necessitano di ulteriori sbocchi per continuare ad essere moltiplicatori economici a favore di una manciata di privilegiati. Facile pensare allo sport. Detto fatto. Motori, atletica, motonautica, golf, calcio, ora pure il tennis è entrato nel mirino di questi cecchini che ci vedono benissimo e fiutano business immensi, tutto a loro favore ovviamente. Tutto è iniziato con qualche esibizione, e questo ci sta, del resto il concetto stesso di “esibizione” è legato a qualcosa di ricco, di una tantum, di momento extra per far felici spettatori e protagonisti. Poi si sono accaparrati il primo torneo ufficiale maschile, le NextGen ATP Finals, che dalla fascinosa Milano – con un ottimo successo, tra l’altro, ben superiore alle attese iniziali anche grazie a un’eccellente organizzazione italiana – si spostano a fine anno proprio in Arabia saudita. Un test, ovvio, per qualcosa di grosso. Sarebbe stolto pensare che questi emiri così sfrontati da volersi comprare il mondo intero possano accontentarsi di una rassegna giovanile, di prospettiva, ma indubbiamente marginale nella disciplina. No. C’è di sicuro molto altro che bolle in pentola. Del resto lo stesso Presidente dell’ATP Andrea Gaudenzi ha affermato di recente che qualche ipotesi di ingresso saudita è già sul tavolo, che se ne sta parlando.
L’uscita di ieri del Presidente della Federtennis Binaghi ha spalancato le porte a nuovi scenari. Concreti. Un possibile Masters e WTA 1000 in Arabia, a gennaio, primo evento dell’anno. Massima vetrina, sicuramente in un impianto da fantascienza e con un Prize money da Slam. Vetrina eccellente per i proprietari, diritti tv venduti a peso d’oro, e pure tour operator a leccarsi i baffi con proposte di viaggi di capodanno al calduccio ai ricconi di turno con inclusi i biglietti per ammirare Alcaraz e Sinner. “Tutto molto bello”, già. Ma… per un catalogo patinato, o per una propaganda del denaro. Siamo sicuri che lo sarebbe per lo sport? E quali le conseguenze?
Intanto mi piace sottolineare l’aspetto a cui tengo maggiormente. Portare il tour Pro, soprattutto quello femminile, in un Paese nel quale le donne non hanno accesso a libertà fondamentali e vengono relegate a uno stile di vita medioevale è filosoficamente e umanamente sbagliato. Non è tollerabile. Ne hanno parlato più giocatrici, sia in attività (Cornet, per dirne una) o ex tenniste (Martinez, Navratilova, per dirne altre). Visto che il CEO del tennis rosa Steve Simon sembra piuttosto attento ad aspetti sociali e umani che vanno oltre al puro fatto agonistico, un WTA 1000 in Arabia non s’ha da fare. Punto. E l’ATP dovrebbe sostenere questa posizione, visto che si cerca sempre più una maggior integrazione tra i due tour, a ragione.
In secondo luogo, aprire l’annata in Arabia comporterebbe discreti problemi per la trasferta in Australia. Gli Australian Open hanno quella data (ultime due settimane di gennaio) per motivi molto importanti alla vita sociale nel paese. Si incastrano alla perfezione in un calendario già bello pieno di eventi, e la quindicina finale di gennaio coincide anche con gli ultimi giorni di vacanze scolastiche, periodo che permette alle famiglie di godere a pieno del torneo. Un torneo che laggiù è attesissimo. L’Australia è probabilmente il paese con la maggior passione tennistica in assoluto nella società. Nei pub di Sydney e Melbourne si beve in allegria una birra con gli amici vedendo tennis, se ne parla per strada. Ovunque. L’Australian Open è quello che gli stessi giocatori chiamano “Happy Slam”, l’atmosfera è la migliore dell’anno e non solo per il caldo, e anche se è la trasferta più pesante per distanza e fuso orario tutti amano iniziare l’anno lì, immersi un clima bello, nell’amore e cultura del gioco.
Cultura del gioco, già. Un 1000 in Arabia finirebbe in ogni caso per scassare il mese di tennis “down under” che funziona benissimo, che è super amato e seguito, che è vissuto con piacere dai protagonisti e appassionati …per cosa? Solo per soldi, una vagonata di soldi, perché dai sauditi il concetto di cultura sportiva non rientra nel vocabolario. C’è un’altra visione del mondo, quella di potersi comprare ogni cosa senza badare a nient’altro. Perché l’ATP dovrebbe impoverire gli eventi in Australia, o eventualmente un Sud America se qualcosa della leg australiana dovesse essere spostato dopo gli Australian Open per non esser cancellato, andando così a sovrapporsi alle (poche) settimane di eventi tra Argentina, Brasile, Cile, altri paesi che amano il tennis e hanno grande tradizione?
Il potere dei soldi sauditi è talmente forte che prima o poi, se vogliono, riusciranno ad entrare nel calendario. È inevitabile perché il nostro amato sport è anche un enorme business, sarebbe stupido non sottolinearlo. Ma qua entra in gioco la forza e valori dell’ATP e WTA. L’ITF già è discretamente scivolata con la pessima faccenda Davis-Kosmos… Concedere spazi a nuovi mercati non è peccato, ma questa scelta deve essere ponderata ed adeguata, non deve pregiudicare le poche cose che funzionano, come la leg australiana. Una soluzione potrebbe essere quella di riservare loro altre date meno “ambite” o critiche. Sarebbe corretto sfruttare quest’eventuale nuova opportunità per rimettere mano a più nodi del calendario, razionalizzarlo come tempistiche, spostamenti tra continenti, rotazioni delle superfici, date degli Slam, ecc, tenendo conto di un elemento imprescindibile: il tennis è uno sport antico, con una cultura che deve essere preservata perché è la forza stessa della disciplina. E la cultura non è mai in vendita.
Marco Mazzoni