VIBO VALENTIA – Il regista giallorosso Michele Baranowicz, che in questa stagione agonistica ha indossato anche la fascia di capitano. Un giocatore e un ragazzo “esuberante”: “Si lo so bene. Io vengo etichettato spesso come una testa calda. La verità è che odio la mediocrità, voglio sempre eccellere, voglio sempre vincere. E talvolta spingo anche i miei compagni ad avere lo stesso approccio alle sfide che si presentano. Posso anche dire però che non mi ritengo una cattiva persona e neppure uno che spacca lo spogliatoio”.
Per Michele sono giorni di solitudine, quella più assoluta è iniziata il 12 marzo quando la società ha sospeso anche gli allenamenti in palestra. Sta trascorrendo questo periodo di quarantena nella sua abitazione di Vibo, non può vedere i suoi compagni di squadra e soprattutto non può vedere la sua famiglia che in pianta stabile vive al Nord, precisamente a Capergnanica, un paesino vicino Crema.
Figlio d’arte – “Mio padre – Wojciech, ex pallavolista polacco (ndr) – mi ha trasmesso l’amore per la pallavolo e mi ha insegnato tutto quello che so. Ancora oggi mi dà consigli e dopo ogni partita mi aspetto sempre un suo commento. Nella maggior parte dei casi sono critiche, raramente arriva qualche complimento (ride!). Sono abituato perché mio papà non ha mai perso tempo ad elogiarmi ma ha sempre cercato di spronarmi a dare il massimo, a fare sempre meglio. Questo è uno dei motivi per cui in campo non sono mai soddisfatto e penso solo a migliorare. Mia mamma invece ha sempre cercato di tenere a bada la mia “esuberanza”, di frenarmi il più possibile”.
La famiglia – Tatiana, la moglie, “Ci siamo conosciuti che avevamo entrambi solo vent’anni, quella stagione giocavo a Crema. L’anno successivo ho avuto la possibilità di disputare il campionato di Serie A in Polonia e lei ha scelto di seguirmi mettendo da parte i suoi sogni e tutto quello che avrebbe voluto fare. So che le sue rinunce sono state tante per poter stare con me, per potermi seguire ha dovuto rinunciare alla sua stabilità anche lavorativa. Sono molto orgoglioso di avere al mio fianco una donna forte che è sempre pronta ad aiutarmi”.
Le amicizia fuori dal volley – “Nell’ambiente pallavolistico c’è molta ipocrisia. Sono una persona molto diretta e preferisco dire ciò che penso. Per questo il più delle volte vengo considerato scomodo. Nel tempo ho dovuto lavorare su questo aspetto del mio carattere e ho tentato di smussare gli angoli senza però mai perdere la mia identità. Se riguardo indietro sono molto soddisfatto di tutto quello che ho fatto e non cambierei nulla”.
La gavetta – “Ho avuto la fortuna di vivere diverse generazioni di pallavolo. Indirettamente quella di mio padre e poi avendo iniziato poco più che adolescente a giocare ho avuto l’opportunità di apprendere il rispetto e la professionalità da atleti già affermati. Oggi sono cambiate tante cose, soprattutto la cosiddetta gavetta si è accorciata. Prima c’era un percorso molto lungo da fare, si partiva dalle serie minori e per andare avanti bisognava dimostrare di valere. Oggi ci sono pochi giocatori e la scalata è molto più semplice”.
Il dopo pallavolo – “Ci penso in continuazione. Ci sono mille progetti, mille cose che vorrei fare. Di sicuro non mi metterei sui libri perché non mi è mai piaciuto studiare. Un’idea potrebbe essere quella di aprire un rifugio per cani abbandonati che mi darebbe l’opportunità di realizzare anche un desiderio di mia moglie. Lei ama profondamente gli animali e mi ha trasmesso questa passione. Il primo regalo che le ho fatto è stato un chihuahua. Ora siamo arrivati ad avere molti cani e due pappagallini. Ad ogni modo mi piacerebbe rimanere nell’ambito del volley magari per allenare e trasmettere ai giovani tutto quello che io ho imparato sul campo. Avrò tempo per valutare con calma anche perché spero di avere ancora diversi anni di carriera davanti”.
Le esperienze di Polonia e Turchia – “Quella in Polonia, che per certi versi è anche un po’ casa mia, è stata un’esperienza forte e molto formativa. Me la cavavo con la lingua e avevo dei parenti lì ma è stata la mia prima stagione in A1 da titolare all’estero ed avevo solo 21 anni. Pochi se lo ricordano ma sono stato uno dei primi giocatori italiani ad andare a giocare fuori dai confini nazionali in un periodo in cui gli atleti italiani non si spostavano molto. Quella di andare in Turchia lo scorso anno è stata una decisione fatta all’ultimo perché ero rimasto senza squadra dopo le vicende di Piacenza. Guardando ai lati positivi posso dire che ho potuto conoscere una cultura nuova e molto diversa dalla nostra”.