Di Roberto Zucca
Sono passati trent’anni da quando il mondo della pallavolo si accorse di lui, che qualcuno definì il giocatore dalla tecnica d’artista e dalla prestanza fisica straripante. In quell’anno, nel 1990, la Maxicono Parma vinse la cinquina dei titoli, ovvero di tutte quelle competizioni a cui prese parte. E due anni dopo, Andrea Giani diventò il mito indiscusso di un’intera stagione dei nativi degli anni ’80, che nel suo personaggio riconobbero un piccolo sogno a misura di pallavolo:
“Modena aveva vinto le finali degli ultimi tre anni contro Parma. Il 1990 fu l’anno in cui la Maxicono ebbe la meglio. Negli anni precedenti, ciò che Modena e Parma vincevano a livello italiano ed europeo non si ripercuoteva in altrettante vittorie della nazionale. Da quel 1990, otto giocatori di quei due club diventarono consapevoli di aver raggiunto una maturità tecnica e di gioco tale per cui anche in azzurro si poteva fare quel salto di qualità avvenuto col club, con il quale in Coppa si era avuta la meglio sulle grandi squadre russe. Julio conosceva bene molti di loro e ha continuato a crescerli professionalmente anche per farli vincere con la nazionale italiana. Ecco, penso sia nato tutto da lì”.
Ventidue stagioni, di cui undici a Parma ed altrettante a Modena. Oggi possono esistere ancora amori così lunghi tra un atleta e un club?
“Forse no. Calcisticamente è come pensare a Juventus e Milan, tu giochi per due club che fanno la storia e poi decidi di smettere. Non è facile racchiudere la propria carriera all’interno di due club che hanno quel tipo di know-how. Già quando alla Juve giochi dieci anni, ad esempio è tanto per un’intera carriera. Idem nel mondo della pallavolo”.
“Lei, Giani, ora ha il ghiaccio sul ginocchio. I miei dirigenti invece se lo dovrebbero mettere in testa per non averla ingaggiata”. Era il 1992 e a pronunciare questa frase fu Silvio Berlusconi. Continui lei…
“Arrivò negli spogliatoi a farci i complimenti dopo la semifinale tra Parma e Milano che decretò la loro uscita dal campionato. E a me disse quella frase che ricordo ancora. In realtà non è che alla Mediolanum non provarono a portarmi via, ma Parma si oppose sempre, perché mi vedeva come un punto fermo della rosa e una persona su cui il club aveva investito e voleva continuare ad investire”.
Lei fu indubbiamente il simbolo della Maxicono. Si dice che Ghiretti pagò 50 milioni delle vecchie lire per avere il suo cartellino. Qualcuno disse che si era bevuto il cervello…
“(ride, n.d.r.) Forse perché avevo solo quindici anni! Comunque al di là delle cifre, giocai a Sabaudia in A2 la stagione precedente al mio passaggio a Parma, e sia loro che Modena si interessarono al mio cartellino. Scelsi il progetto di Montali e Ghiretti perché durante il provino riuscirono a farmi appassionare a quella visione. La storia, poi, mi diede ragione sulla scelta fatta”.
Sempre nel 1992 lei divenne il protagonista dello spot più famoso della pallavolo italiana.
“È stato uno spot non mio, ma di un’intera squadra. Se ripensiamo allo sport di quell’epoca, è stata un’autentica innovazione. C’erano i mezzi economici per farlo, ma c’era anche un sentimento per la pallavolo che era parte attiva del grande sport italiano. Fu un periodo in cui tra noi e i calciatori, ad esempio, non c’era tanta differenza”.
“Tra il tendine inserito nell’ulna e la rotula ha una cavità che assomiglia a una coppa di Champagne”. Sannucci su Repubblica le strappò un sorriso all’epoca?
“(ride n.d.r.) Dico sempre che la coscienza che hai rispetto a ciò che stai facendo cambia a seconda dell’età. Ho vissuto l’alto livello quando ero molto giovane e anche in maniera piuttosto incosciente. Non badavo ai premi, alle vittorie, al successo e a ciò che avrebbero scritto su di me. Mi interessava solo fare qualcosa che mi appassionava. Lavoravo per imporre la mia forza tutti i giorni”.
E come si fa in quei momenti lì a non perdere la testa?
“C’era una cultura che veniva dalle nostre famiglie e dalle società, che sicuramente era predominante ed era fatta di valori solidi. In più il lavoro quotidiano attorno a noi era svolto da persone preparate. Tutto ciò che scaturiva da quel momento fu gestito bene da tutti, senza mai perdere la direzione”.
La più grande soddisfazione che si è tolto con i guadagni della sua carriera?
“Nel 1991 costituii una società immobiliare con la mia famiglia ed è stata quella la nostra cassaforte. Quel tipo di investimento fu, a 21 anni, la mia certezza sul futuro. Ho investito e diversificato, e ho cercato di non ho sprecare nulla. Non avendo mai giocato per le cifre, ma per la passione, volevo essere libero di continuare a farlo costruendomi certezze. Non sono mai stato uno da grandi desideri. Ero piuttosto una persona molto concreta”.
Foto CEV
Il suo gioco. Unico tallone d’Achille la battuta. È vero che il ds Aristo Isola a Parma minacciò bonariamente di multarla di 5 milioni di lire per ogni “servizietto”?
“A me non lo ha mai detto! Ho vissuto sempre questo fondamentale per quello che serviva alla squadra. La mia filosofia era quella dell’attaccante. Per me l’attacco è una parte importante. Poi c’erano il muro e la difesa che mi davano proprio gioia e mi stimolavano tanto. La battuta e la ricezione un po’ meno, lo ammetto. Ma nel corso del tempo anche la battuta ebbe un suo percorso e una sua evoluzione. La spin la utilizzai nelle competizioni internazionali. Nel club usavo più la flot, non per una ragione dettata dagli allenatori. Il gioco è sempre stato una mia scelta personale”.
Dicono che Velasco stravedesse per lei, ma che non riuscì ad entrare completamente nella sua testa. Chi la comprese realmente?
“Julio e Bebeto sono sicuramente i due allenatori che hanno inciso in tutto. Devo dire che mi hanno compreso al 100%. Ciò che è stato difficile sono stati i cambi di ruolo. La difficoltà del cambio porta inizialmente ad avere delle performance altalenanti, ma questo non era imputabile alla mancata comprensione del tecnico, quanto al cambio di ruolo stesso”.
Il rapporto con il suo alter ego Andrea Zorzi?
“Andrea è stato il mio fratello maggiore. Arrivai a Parma a 15 anni. Lui ne aveva 20. Fu una base che mi permise di avere una certa stabilità emotiva, anche perché era la prima volta che mi allontanavo da casa. Durante la finale dell’88 contro Modena, eravamo al bar e lui, prendendo il giornale in mano, mi disse: ‘Oh Giangio sei stato convocato in nazionale!’. E io: ‘Ah sì?’. Ecco, lo racconto spesso perché questo fa capire la misura di ciò che abbiamo condiviso, e per me è stato davvero importante”.
Si dice che papà Dario, storico atleta olimpionico dell’Arma dei Carabinieri, abbia forgiato il suo carattere.
“Mio papà ha un grandissimo pregio, ovvero non aver mai limitato le mie passioni sportive. Ho cominciato col canottaggio e in quel momento non mi disse mai nulla e non mi allenò mai, ma mi lasciò scegliere. Non avermi mai limitato è stata la mia grande fortuna. Anche caratterialmente”.
La saggezza di Giani è la saggezza di papà Dario?
“La ringrazio per il complimento. La base sì, poi il percorso sei tu a dovertelo creare. I tuoi genitori e il tuo contesto familiare ti trasferiscono la parte educativa. Il resto sono esperienze tue, nelle quali sviluppi il tuo modo di stare al mondo”.
Ha usato questa saggezza per guarire dall’incubo di quell’asticella leggendaria nella finale di Atlanta 1996?
“Non è un incubo intanto, perché non ti svegli urlando mentre sogni ancora quel punto. La razionalità ti fa capire i passaggi di quella palla che portò il titolo più importante al collo dell’Olanda. Il rammarico non è tanto quella palla, in cui c’era l’1% delle possibilità di andare dall’altra parte, quanto quella del nostro match point. Fu quello il vero rammarico, perché lo abbiamo gestito male e perché poteva essere il momento decisivo per noi. Ma fu comunque un momento e un traguardo importante della mia carriera”.