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L’addio a Gianni Mura. La sua intervista a Piccinini. Lui inviato ai Mondiali di volley del 1970

Gianni Mura

MODENA – Si è spento stamani presso l’ospedale d Senigallia, per un attacco cardiaco improvviso, Gianni Mura, 74 anni giornalista e scrittore, firma storica del quotidiano La Repubblica ha scritto pagine memorabili sullo sport e l’Italia degli ultimi decenni, dal calcio al ciclismo. Nell’inverno scorso scriveva – nella sua rubrica “Sette giorni di cattivi pensieri” – del doppio successo italiano nel mondiale per club: “Com’è grande la città, cantava Gaber. Com’è grande Istanbul, rispetto a Conegliano. E com’è grande Belo Horizonte, rispetto a Civitanova Marche. Però campionesse del mondo di volley sono le ragazze dell’Imoco, campioni del mondo quelli della Lube. Che bellezza”.

Poi raccontava del suo passato “pallavolistico”: “Sono un po’ fuori dal giro, dal vivo ho seguito i Mondiali del ’70 in Bulgaria ed era un altro volley, in campo e fuori. Di quello di oggi mi colpisce il numero di scritte pubblicitarie sulle maglie, sulle braghette: tra sponsor principali, secondari, sponsoretti, sponsorini, sponsorucci, tra 15 e 20 anche per le squadre di prima fascia. Ma sono dettagli”.

Oggi il suo quotidiano La Repubblica ripropone online la sua serie di interviste “Regine azzurre”, tra queste anche una a Francesca Piccinini dello scorso 7 Marzo 2019.  

La pallavolista concittadina di Buffon: “Ci giudicano bolliti ma non è così. Una cosa bella dello sport è che trasmette gioventù. Smettere è difficile, lascerò a mia nipote le 200 paia di scarpe”
 
NOVARA –  L’appuntamento con Francesca Piccinini è nella pausa pranzo (molto leggero) dopo l’allenamento con i pesi e prima di quello con il pallone, tutte insieme le ragazze dell’Igor. Ho deciso di partire da lontano. Da lei, da Buffon e da Carrara, dove sono nati. Lei in una frazione: Castagnola di Sopra. “È in alto, come dice il nome. Sulla strada per il cimitero”.

Tutt’ e due nati in gennaio, lei il 10 lui il 28, ma del ’78, un anno prima. Capitani della loro squadra e della Nazionale. “Alt, io non più da quando mi sono chiamata fuori, prima di Rio. Non ho condiviso alcune scelte del ct, le ho rispettate ma era chiaro che per coerenza potevo solo tirarmi da parte, e mi è costato molto perché la maglia azzurra dà una carica fortissima”.

Si torna a Castagnola: “Gigi non posso dire di conoscerlo bene. Ho giocato a volley con Guendalina e Veronica le sue sorelle. Lui credo fosse già a Parma. Se io e lui abbiamo qualcosa in comune, Carrara a parte, è che molti ci giudicano stravecchi e bolliti. E non è vero: il mio corpo l’ho sempre trattato bene e mi sento più giovane adesso di quando avevo vent’anni”.

Tornerebbe indietro, potendo? 
“Mai”.

Com’è arrivata alla pallavolo?
“Provando prima alcuni sport in cui non mi sono sentita a mio agio e nemmeno divertita. Danza, nuoto, pattinaggio, equitazione: tutti sport individuali, forse era scritto che mi adattassi meglio a uno sport di squadra. Ci ha provato anche mia sorella Chiara, giocava da palleggiatrice ma non le piaceva granché. In compenso Zoe, sua figlia, è la mia prima tifosa. Ha 10 dieci anni e si è fatta promettere che le lascerò tutte le mie scarpe”.

Sono tante?
“Più di 200 paia, non so resistere alle scarpe. Le ho promesse a Zoe, basta che crescendo non superi il 41 di piede”.

Da che famiglia proviene?
“Una famiglia molto unita a cui devo molta riconoscenza. Un giorno mia madre m’ha detto che in pratica sono stata allevata al telefono, educata al telefono, cresciuta al telefono. Mio padre Roberto, caporeparto in una fabbrica di mattoni. Mia madre Almarella, trent’anni alla Esselunga, ma negli uffici, non alle casse. Come per molte della mia generazione la spinta ad amare il volley è nata dai cartoni animati giapponesi di Mila e Shiro, sognavo di andare a giocare in Giappone. Infatti a 18 anni mi ritrovo in Brasile”.

Che non è da buttar via. Dove?
“Al Paranà di Curitiba, Bernardinho mi voleva a tutti i costi. Un allenatore che ha vinto tutto. Sa chi è? Il padre di Bruninho che gioca a Modena”.

Sì, grazie, fin lì ci arrivo. E come andò in Brasile?
“Le brasiliane mi accolsero bene, mi accettarono, anche perché non ero e non sono una piantagrane. Livello tecnico altissimo. Otto ore al giorno di allenamento. Arrivammo seconde. Mi chiesero di restare ma mi era venuta la saudade al contrario. Niente cellulare, comunicazioni telefoniche intermittenti, faticose e soprattutto carissime. Così in famiglia eravamo tornati a scriverci lettere, sistema più romantico ma più lento”.

È la sua sola esperienza all’estero?
“Sì. Piaciuta ma non ripetuta”.

Non è un po’ strano? Negli anni successive si vedevano giocatrici italiane in Turchia, in Russia.
“Le offerte sono arrivate anche a me, e in alcuni casi avrei guadagnato cinque volte tanto, ma le ho rifiutate”.

Come mai?
“I soldi non sono la cosa più importante della vita. L’amore vale molto di più, e anche la serenità, il sentirsi bene in un gruppo”.

Lei qui com’è messa?
“Molto bene. Non vedo l’ora di andare al mare in Sicilia con Gabriele, il mio fidanzato. Perché ride?”.

Mi ha sorpreso la parola fidanzato, credevo non si usasse più.
“Posso fare due precisazioni, anzi due smentite?”.

Ne ha facoltà.
“Sui social girano due voci. Prima voce: la Piccinini è incinta. Ma a me non risulta. Seconda voce: a fine stagione smetterà di giocare. Neanche mi sfiora l’idea. Un altro anno ad alto livello mi sento di giocarlo, e lo giocherò”.

Nel 2005 Feltrinelli ha pubblicato un suo libro, intitolato “La melagrana”, biografia e non solo. Non sono riuscito a trovarlo. Mi può spiegare il titolo?
“Mi paragono io alla melagrana, un frutto che esclude la fretta. Non è una mela o una banana, che puoi mangiarle anche camminando per strada. È un frutto che chiede calma e tempo. È dolce ma anche amaro, nella sottile membrana che avvolge i chicchi. Non va giudicato al primo impatto, superficialmente. È buonissimo, ma bisogna sapere come prenderlo. Qual era la mia immagine pubblica? Una ragazzetta carina e stupida che gioca piuttosto bene a volley”.

Non si butti così giù.
“Mi lasci fare, so quello che dico. Forse avranno influito le foto per il calendario nudo, ma non credo. Erano foto classiche, ognuna ispirata da uno sport, per nulla volgari. Nel libro interiorizzo il discorso, parlo di agonismo, di silenzio, di paura, di responsabilità, di collaborazione, di rispetto, tutte parole che in ogni sport hanno un peso. Oggi c’è troppa frenesia, troppa voglia di accorciare i tempi. Me ne accorgo sui campi. E c’è poco rispetto tra le più giovani e le più anziane. Torno a fare il discorso del rispetto perché molti hanno pensato che fosse rivolto alle mie compagne di Novara. No, è generale. Io passo per un tipo esuberante, ma da giovane sapevo stare al mio posto, mai risposto a muso duro alla critica di una veterana. Il gruppo, la compattezza dello spogliatoio, i valori positivi della collaborazione, la reciproca comprensione, insomma tutto quello che dovrebbe essere l’anima di una squadra così fa più fatica ad affermarsi”.

Da cosa dipende?
“Non so, forse è una questione generazionale. Ai miei tempi se un professore diceva ai tuoi che non ti applicavi erano guai per te. Adesso, e sono cronache recenti, se un professore critica o dà un brutto voto a tuo figlio tu vai a scuola e rompi la faccia al professore”.

A proposito di figli. “La melagrana” non l’ho trovato, ma so qual è la dedica: “A mio figlio”. Che non aveva e non ha.
“Che avrò, appena avrò trovato l’uomo giusto”.

Requisiti?
“Forte e sensibile, che sappia tenermi a freno, perché nel rapporto di coppia ho tendenza a impormi. In ogni caso, la maternità mi attira molto più del matrimonio”.

Seguo molto la pallavolo in tv e ho notato che durante il time-out gli allenatori usano molto due parole: okay e raga. Le sembra normale?
“Bè non si dice in diretta tv la mossa segreta, semmai la si bisbiglia all’orecchio dell’interessata”.

Perché non ci sono donne che allenano in serie A?
“Non lo so. Credo che molte giocatrici quando smettono pensino ad altro, non puoi riempire gli anni di palestre, viaggi, alberghi, con una vita sociale quasi azzerata”.

La vita che sta facendo lei, dopo aver vinto 5 scudetti, 6 Coppe dei Campioni, 1 Mondiale, 1 Europeo, 1 Coppa del Mondo.
“Perché mi diverto, mi piace giocare, forse non sono pronta all’addio. Una cosa bella dello sport è che trasmette gioventù. Fisicamente sto benissimo. Del resto i malanni più pesanti li ho avuti da giovane: una spalla usurata a 14 anni, e a 18 una vite nell’alluce sinistro, che mi faceva molto male. Il male è passato e la vite è rimasta. Non è un bel vedere”.

Senza altri calendari in programma e tramontata la sfida con Maurizia Cacciatori su chi fosse la più bella del reame, non sembra grave.
“Quante risate ci siamo fatte io e lei, tutt’e due di Carrara, su questa faccenda del sex symbol. Che poi, dico io, a essere belle non c’è merito, il merito semmai è dei genitori. A essere brave il merito c’è. E quindi secondo me finivamo pari: Maurizia certamente più bella di me, ma nel volley più brava io”.


Fonte: https://www.volleyball.it/feed/


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