Da qualche parte, in un libro di fantascienza da quattro soldi, c’è sicuramente la risposta: come sarà il nuovo inizio? Non lo sappiamo. Il libro non l’abbiamo trovato. Il calcio annichilito dovrà sgranchirsi le gambe, anzitutto. E non sarà facile. Pensate a dei professionisti abituati a stare sempre in movimento. Non hanno vacanze, perché schiatterebbero. Anche al mare o altrove, li vedi giocare a calcio-tennis, a beach-volley, a calciotto magari per la gioia dei bagnanti vicini d’ombrellone. Nemmeno alle Maldive si riposano. Piuttosto fanno snorkeling per un chilometro avanti e dietro, cercando il pallone d’oro degli abissi, o magari di corallo. Invece adesso è veramente tutto fermo, come se l’infortunato fosse il mondo (e così è). Ce ne vorrà per rimettersi in sesto. Perché quando la sosta è forzata, quando fuori c’è il deserto, sono soprattutto motivazioni e concentrazione a mancare. Anche un campione dice: ma perché dovrei sbattermi? Chissà quando ricomincio. Dunque il primo punto è: quanto occorre a un professionista per tornare in condizione? Paradossalmente, più che a un amatore o a un dilettante. Anche perché è più faticoso non lavorare che interrompere l’evasione. Superato lo scoglio della forma, c’è il ripristino delle convenzioni: la vicinanza, il contatto, il sudore, gli altri liquidi (saliva, sangue). Per tacere delle banali strette di mano. E i tifosi? La stessa cosa. Anche per loro ci sarà una ripartenza, ma in questo caso ripartenza non vorrà dire mai contropiede. Ripartenza per lo stadio. Sì, ma come? Vicini come prima, vicini per forza, vicini ma non troppo? Chi lo sa. E poi abbiamo pensato a come sarà il primo gol del “dopoguerra”? Verrà festeggiato, si toccheranno in campo, ci toccheremo in curva o in tribuna? Oppure, dopo tanta distanza sociale, esulteremo come dei pupazzi, ignorando il prossimo? Oppure i gol saranno soltanto eventi televisivi? In campo, i giocatori, cosa faranno: baci e abbracci? O si daranno di gomito, palesemente imbarazzati a vita? O magari riprenderanno, forzatamente, a saltare come facevano gli antenati, goffamente, senza esagerare? Sarà un calcio “nihilista”? Uno sport disidratato in cui sarà consigliato non esternare? Ma allora a che servirebbe? Alla lunga morirebbe. Se al gol togli la sua cornice, quel suo essere momento fatale, non somiglierebbe più all’orgasmo. E non avrebbe più senso. Né i grandi poeti del pallone sentirebbero più il richiamo. E la tribù, frustrata, si allontanerebbe da un Messi depotenziato dal rigore post-emergenza. Ciò che dava felicità senza freni e se vogliamo senza motivo, ciò che è nato per dare adrenalina, non può cambiare pelle e trasformarsi in litio: un gol non può limitarsi a offrire una generica soddisfazione. Non esiste. Dopo un gol non si può dire: sono contento. Si deve dire, come Gassman nei “Mostri”: aho me viè lo strurbo! Attenti, ragazzi, il calcio è fatto di esplosioni, di passaggi, sì, ma di calore. E di continue condivisioni, soprattutto fisiche. Anche di puzza se volete: il caldo sugli spalti, gli odori mescolati degli spogliatoi. L’anima di ognuno di noi muore e rinasce migliaia di volte all’anno. Se al calcio togli la miccia dell’inspiegabile entusiasmo che lo circonda e lo nutre, è come gli estirpassi il cuore. Attenti: il calcio non è un carillon, che basta caricarlo e quello parte col solito motivetto. Il calcio è passione allo stato puro. Prima dei soldi, c’è l’amore per ciò che si fa e che tiene vivo il bambino che è in noi (e in quanto bambino smania). Se si ha paura di tornare ad essere “normali”, restiamo pure fermi. Chiudiamo tutto per sempre. L’altra soluzione, il calcio dei divieti, permanenti o temporanei, sarebbe una vergogna. Sarebbe impraticabile. Sarebbe ridicolo. Sarebbe un’offesa ai sentimenti. E forse sarebbe un suicidio.
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Il calcio che verrà: come festeggeremo i gol dopo l'epidemia
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