Giannetto Cimurri massaggiava, massaggiava. Avrebbe massaggiato anche i pedali delle biciclette, se glielo avessero chiesto (i pedali). A lui è dedicata la mostra nello Spazio Credem di Reggio Emilia (“Giannetto Cimurri: il masseur e le bici dei suoi campioni”, uscito nel 2011 con la prefazione di Romano Prodi), che sarà aperta sino al 30 aprile. Giannetto era una macchina. Diceva che non bastava lavorare sui polpacci: bisognava toccare le braccia, e forse anche con più energia e competenza. Senza dimenticare il collo degli atleti. Aveva una visione quasi olistica della sua professione, anticipando le conquiste della futura fisioterapia pur senza mai allontanarsi dagli antichi ingredienti e dai sommi traguardi delle più rustiche alchimie: massaggiava con un composto pastoso di aceto bianco, olio di trementina, etere salicilico, canfora, 12 rossi e 6 bianchi d’uovo che Giannetto shakerava in un fiasco (“e a volte mi addormentavo col fiasco in mano!”). Mentre nelle pomate infilava persino il midollo di bue.
I suoi ciclisti, a cominciare da Gino Bartali e Fausto Coppi, al quale lo legava un’amicizia profonda, da Moser a Bugno, lo amavano senza condizioni e lo chiamavano affettuosamente “Manosanta” (“La manosanta dei campioni” è il titolo della biografia a lui dedicata da Paolo Alberati). Giannetto Cimurri è una leggenda dello sport reggiano, di cui era diventato quasi involontariamente un ambasciatore. Era nato nel 1905. Se n’è andato nel 2002, a 97 anni, lasciando segni indelebili sulla storia del ciclismo italiano, ma anche del calcio e del pugilato. Ebbe una carriera di ciclista ridotta all’osso: A 16 anni s’iscrisse di nascosto a una corsa, legò il fratello Abramo al seggiolone e per compensare gli lasciò una pagnotta, si fece prestare la bici da corsa di un vicino, scappò di casa, ma quando scoprì che sul telaio c’era non solo uno stemma tricolore ma anche un fascio littorio, era già troppo tardi.