Il 7 aprile 1988 l’Olimpia ha vinto a Gand, in Belgio, la sua terza Coppa dei Campioni. L’allenatore di quella squadra era un debuttante di 36 anni cresciuto nell’Olimpia. Gli unici allenatori italiani che abbiano vinto il titolo europeo di club sono stati Cesare Rubini, Sandro Gamba, Valerio Bianchini, Giancarlo Primo, Ettore Messina e appunto Franco Casalini. Quest’ultimo è stato il più giovane coach italiano vincitore del titolo. Alla vigilia del 32° anniversario di quell’impresa, gli dedichiamo questo profilo-intervista.
Milanese, nato l’1 gennaio del 1952, Franco Casalini iniziò ad allenare giovanissimo e aveva appena 20 anni quando Cesare Rubini lo portò alle giovanili del Simmenthal. Negli anni successivi quella diventò di fatto la sua casa: interminabili giornate trascorse in palestra, a lavorare sui fondamentali, per un’ideale. E quando arrivava il weekend e non ci si allenava, le giornate venivano spese in giro per l’hinterland milanese, alla ricerca di giocatori, idee, informazioni o anche solo perché quella era la vita che lui, e altri come lui, si erano scelti. Nel 1977, Casalini aveva 25 anni quando diventò l’assistente di Pippo Faina nel primo anno di Mike D’Antoni all’Olimpia. Il playmaker era più anziano dell’assistente allenatore, per questo quando diventò head coach della squadra Casalini si considerava un “Co-coach” o una sorta di “primus inter pares”.
Nel 1978, diventò l’assistente storico di Coach Dan Peterson. “Era un uomo che conosceva le persone, coglieva le caratteristiche degli uomini, era disponibile e rigoroso al tempo stesso. Era bravissimo a comprendere le debolezze, ma pretendeva che si facesse di tutto per superarle. Ha insegnato a tutti a pretendere da sé stessi più di quanto si pensasse e a farlo in modo collettivo. Quello era il segreto dell’Olimpia”, racconta Casalini. Come assistente, vinse quattro scudetti, una Coppa dei Campioni, una Coppa Korac. Con le vittorie, Peterson diventò sempre più personaggio, sempre più difficile da arginare dentro i confini del basket. Poi aveva questa idea di non voler allenare troppo a lungo. Ogni anno quando finiva la stagione, diceva di voler smettere. E a quei tempi non c’era alcun dubbio su chi sarebbe stato il suo erede. “Ogni anno il dotto Gabetti (presidente-proprietario dell’Olimpia – ndr) mi chiamava e diceva che Peterson avrebbe smesso offrendomi di diventare capo allenatore. Ma dopo qualche giorno arrivava puntuale la controtelefonata, perché Peterson aveva deciso di continuare. Non era mai una sorpresa: sapevo che non si sarebbe mai ritirato prima di vincere la Coppa dei Campioni e io come assistente ero felice”.
La Coppa dei Campioni era il chiodo fisso dell’Olimpia, almeno dal 1983 quando a Grenoble perse la finale-derby contro Cantù in un finale rocambolesco e confuso. “La stessa telefonata mi arrivò però nel 1987 dopo la vittoria della Coppa dei Campioni. In quel momento pensavo potesse essere vero, Gabetti mi fece la rituale telefonata, io tornai a casa chiedendomi se avrei ricevuto di nuovo la sua telefonata di contrordine. Invece a chiamarmi fu Peterson”, racconta. Il Coach fu lapidario: “Ciao Franco, adesso sono cavoli tuoi…”. “Ho capito che era la volta buona, ma non è stata una sorpresa, era nell’ordine naturale delle cose. Solo in estate ho capito che era cambiato tutto”.
Tanto perché capisse in fretta che cosa lo avrebbe atteso, il primo impegno dell’Olimpia nella nuova era fu la Coppa Intercontinentale, a Milano tra l’altro. “Eravamo gli organizzatori, venivamo dal Grande Slam, eravamo strafavoriti e dovevamo vincere”, ricorda Casalini. Non proprio un atterraggio morbido. Poi il debutto contro il Barcellona. “C’era Candido Sibilio, un’ala piccola, un fenomeno, segnò non so quanti punti”. L’Olimpia perse la prima partita, ma poi non perse più e vinse il trofeo: “Sibilio probabilmente era meno in forma, c’era anche Pittis che stava cominciano a venire fuori. Vincere quel trofeo diede a me un enorme sollievo. Onestamente, sentivo la pressione del debutto”.
Nella storia dell’Olimpia ci sono state alcune mosse storiche. Di Peterson si ricorda la marcatura di Larry Wright, 1.85, con Vittorio Gallinari, 2.08. Ma anche Casalini ha il suo aneddoto. Nel 1988, il problema di Milano era la marcatura delle ali piccole, un difetto che sarebbe costato lo scudetto contro la Scavolini di Darren Daye. Ma in Coppa dei Campioni, il problema evidenziato da Candido Sibilio a inizio stagione si ripresentò tale e quale nelle Final Four di Gand. La semifinale era contro l’Aris Salonicco. La minaccia rappresentata da Nick Galis e Panagiotis Giannakis era evidente, ma Casalini temeva il bomber serbo Slobodan Subotic. “Mi venne in mente una notte… affidarlo a Meneghin. Forse perché sapevo che era un giocatore di tale grandezza che poteva fare tutto. Dicevo sempre che non giocava playmaker per sua scelta, ma poteva farlo. Non mi ritenevo un vero allenatore, ma un primo tra gli uguali. Quando decisi di far marcare Subotic a Meneghin mi consultai con i miei coetanei, con Dino e Mike D’Antoni, oltre che con Cappellari. Ci trovammo a pranzo per discuterne. Non ci avevano neanche apparecchiato. Chiesi a Dino se se la sentisse e rispose sì. D’Antoni disse che era una buona idea. In 12 secondi avevamo deciso”. L’Olimpia sconfisse l’Aris, poi anche il Maccabi e vinse la Coppa dei Campioni.
Con D’Antoni e Meneghin, l’altra star era ovviamente Bob McAdoo. Casalini lo conosce meglio di tutti, perché l’ha allenato tre anni da capo allenatore a Milano, uno da assistente e poi l’ha avuto anche a Forlì. “Joe Barry Carroll era un grande, avevano ruoli e tipo di gioco diversi, ma il più forte che abbiamo avuto era Bob, un giocatore universale”. Un anno dopo la Coppa dei Campioni, Casalini conquistò anche lo scudetto, nella celebre finale di Livorno, quella del tuffo di McAdoo. “E’ una partita che ricordo come se fosse avvolta in una nebulosa, non ricordo esattamente l’andamento. Eravamo abituati a vedere cose fuori del comune, ma quel tuffo non l’avevamo mai nemmeno immaginato, perché non faceva parte di lui, del suo repertorio, non era certo il suo cavallo di battaglia. Aveva eseguito stoppate decisive, preso rimbalzi decisivi, ma una cosa del genere a metà campo, un volo di cinque o sei metri, che poteva anche essere inutile, mi sono chiesto come poteva venire in mente ad un giocatore di 38 anni”.
Casalini è rimasto all’Olimpia 18 anni. Se ne andò dopo la stagione 1989/90, quando Mike D’Antoni dopo essersi ritirato diventò immediatamente il capo allenatore del club. “Sono stati gli anni decisivi della mia vita, senza quei 18 anni non sarei la stessa persone, per me l’Olimpia non è la mia casa, è la mia vita”.