In casa a Bologna, con i genitori in campagna nei pressi di Brescia, Pietro Aradori vive chiuso in casa come tutti noi. Come sopravvivere alla quarantena di massa e pensare positivamente al futuro e alla pallacanestro nell’intervista a Giorgio Burreddu del Corriere dello Sport.
Tenersi in forma. A casa, come tutti. Però ho scoperto nuovi modi per farlo. Certo, mancano tutte le componenti del professionismo, il campo, il canestro, la sala pesi, ma faccio gli esercizi, tabata, ho un programma di allenamento ad hoc. Tutto sul pavimento del salotto, è molto grande.
Cosa manca della pallacanestro. Tutto. Lo spogliatoio, i compagni, la gente, il gioco. Forse sembrano cose scontate, invece no. E a tutti mancano le cose essenziali che si facevano prima, quelle di tutti i giorni che appunto davamo per scontate.
Finire la stagione? Io giocherei anche durante l’estate, non ci sono problemi. Ma che senso ha parlarne ora? Questa è una situazione talmente difficile e complicata che non è il caso di discuterne. Si potrebbe anche giocare a porte chiuse, sì… Se giochi a porte chiuse vuole dire che qualcosa nel mondo c’è ancora qualcosa che non va. E quindi perché dovremmo giocare noi?
Cambierà lo sport? Forse cambierà il modo di viverlo. Speriamo non troppo. Ora però dobbiamo tenere viva l’attenzione, trovare modi per stare a contatto con la gente, sui giornali, parlare di pallacanestro, perché di basket c’è voglia. E quando si potrà, organizzeremo degli eventi, magari all’aperto, al mare, in posti dove è possibile attenersi alle regole, ma anche fare comunità.