Il forte eco dopo la terribile notizia della morte di Kobe Bryant rendono il fatto straziante ma anche unico.
Perché di tragedie purtroppo ce ne sono tante ma per la cultura pop e social se ne andato un grandissimo.
Un giocatore diventato un mito per intere generazioni, ma non dopo domenica sera ora italiana, ma tanti anni prima.
Mito reso non solo cestistico come probabile effetto collaterale del suo palmares ma anche per quello che ha rappresentato al mondo sportivo dopo il suo ritiro nel 2016.
Kobe dopo il punto più basso della sua vita con l’accusa stupro nel 2003 patteggiata, ha ricostruito la sua immagine anche perdente (una finale persa con Detroit) come nessun altro nella storia.
Ha lavorato su se stesso mettendo il basket al centro di tutto, diventando negli anni un modello di lealtà, tenacia concentrazione e forte ispirazione.
Il suo egoismo e sfida verso il gioco ha interrotto dopo quel nefasto anno, le strade più semplici verso il successo, abbandonando alibi (Shaquille O’Neal) e iconizzandosi sempre più.
Cambiando anche il suo numero di maglia dal otto al ventiquattro rimarcando il suo accanimento al lavoro (24h) e numero ricorrente nella pallacanestro (24 secondi per concludere l’azione).
Kobe ha fronteggiato le critiche, anche del sottoscritto dell’epoca, continuando ad allenarsi duramente e presentandosi anno dopo anno con sempre qualche fondamentale in più.
La sua storia così è stata completamente stravolta, costruendosi un esempio di resistenza umana, trasformando la sua ossessione per il gioco in amore con il tour d’addio.
I suoi successi sono diventati unici anche per il vissuto costruitosi con insistenza, rendendo la sua “vita” semplice e da Oscar come miglior cortometraggio prodotto nel 2018.
La sua precoce e tragica dipartita a soli quarantuno anni con la figlia tredicenne, ha reso così traumatica la notizia rendendola ancora illogica a tutti.
Convincendo tutti (anche il sottoscritto) sulla sua magnificenza e consegnando Kobe Bryant proprio come voleva lui: una leggenda.