Scusate, non ce la posso fare. A commentare il Gran Premio di Germania a Hockenheim, intendo. E proprio per il fatto che il Gran Premio si sia tenuto a Hockenheim, con le sue tribune traboccanti e il sontuoso rettilineo abbracciato da ali di folla.
Ma quello non è il vero Hockenheimring.
Quel moncone a forma di elefante depresso, con la proboscide mestamente strisciante per terra invece che ritta nel barrito del capobranco, la conseguenza di quel che va sotto il nome di Stupro dell’Hockenheimring, non è che il risultato di un’involuzione decisa cinicamente e chirurgicamente da coloro i quali avevano pianificato uno stravolgimento della pista originaria allo scopo di renderla più appetibile per la Formula Uno contemporanea, per prolungare la vita di uno dei templi del motorismo storico, ricco di storia e frequentato da un pubblico competente e appassionato. La stessa gente che deciderà di disfarsi cinicamente del circuito perfino una volta modificato, costringendolo a un’umiliante uscita dal campionato di Formula Uno.
Abbandoni, mutilazioni e stravolgimenti non sono una novità nella storia della Formula Uno, basti pensare al glorioso Inferno Verde o al circuito di Zeltweg, ma la pista di Hockenheim è diversa, intanto perché ha vissuto i suoi giorni di gloria fino a un recentissimo passato e poi perché parte del tracciato storico è stato di fatto abbandonato, inghiottito da quella stessa foresta fra le cui fronde risuonava il rombo dei bolidi, senza fare nemmeno uno sforzo per conservarlo come monumento. Mi sono innamorata della storia di Jim Clark grazie alle curve dell’Hockenheimring e a quel circuito sono legate alcune delle memorie più piacevoli della mia vita da appassionata di corse, nel momento in cui la mia passione si è consolidata, cioè i primi anni Duemila.
Non ce la posso fare perché io Hockenheim, quella vera, me la ricordo bene.
Per cui scusate, ma a questo giro smonto l’Halo e scendo, grazie.
Così pensavo mentre mi arrampicavo su per la collina della ridente località di Wielicka, vicino Cracovia, domenica scorsa, durante una gita organizzata tempo fa senza la cautela di controllare prima il calendario del Campionato di Formula Uno. Io, che ho attraversato la Germania fino a Spa facendo tappa proprio al Nürburgring, amante della lingua tedesca che ho cercato – invano – di apprendere, che ho scritto i miei articoli migliori – almeno credo – proprio a proposito dei circuiti tedeschi, insomma io mi sarei persa il rientro nel calendario del Gran Premio di Germania. Poi, grazie o a causa della nuova normativa sul roaming, ho potuto utilizzare regolarmente lo smartphone e la sua connessione dati, così, impotente su un pullman con l’aria condizionata regolata sulla posizione Winter Is Coming mentre fuori c’erano trenta gradi, ho iniziato a collezionare notizie: Vettel partiva in pole, Hamilton schifesimoquarto, partenza regolare, la Mercedes su una strategia migliore, poi un diluvio che ha reso necessaria l’Arca di Noè come safety car, la frenesia dei pit stop e poi il botto. L’erroraccio. La ghiaia. E una fine sola: doppietta Mercedes, Hamilton vince.
Improvvisamente ho ricordato il mio tedesco, soprattutto le parolacce. L’eco delle maledizioni del Popolo Rosso mi è arrivato distintamente alle orecchie, a 136 metri sottoterra, nella miniera di sale diventata attrazione turistica, chiamando a testimone Santa Klinga e tutta la chiesa a lei dedicata in loco. Perfino le statue di sale, lontana eco di storie veterotestamentarie di peccato e punizione, parevano perdere la loro fissità e tornare vive solo per esclamare: Mapporcoilcrauto no!
Così ho deciso di giocarmi il bonus donna: in quanto tale, posso decidere di essere mutevole, per cui lasciate perdere l’Halo, che mettiamo anche stavolta un po’ di virgole!
Sarò breve, perché, non avendo assistito direttamente a un gara confusa e controversa come quella andata in scena domenica ad Hockenheim, non ritengo di avere gli strumenti per dare una base di obiettività alla mia solita irriverenza. Hamilton ha vinto meritatamente, perché è un merito essere nel posto giusto al momento giusto e sfruttare la migliore strategia, oltre che approfittare degli errori degli altri; il suo culto autoreferenziale per il personaggio che ha creato mi fa venire l’orticaria più che le sceneggiate di Neymar durante i Mondiali, ma bisogna dare a Lewis quel che è di Lewis, bravo e fortunato nel raddrizzare una qualifica storta.
Quanto alla controparte, l’armata Rossa arrivata in Germania con il favore dei pronostici e lavata via dalla pioggia dell’Hockenheimring assieme a un bel paniere di punti iridati persi irrimediabilmente, c’è da dire che non sarà una gara pazza e storta a cancellare quanto di buono fatto vedere dalla SF71H e dai suoi sviluppi. Quanto a Sebastian Vettel, credo che essere difeso da Verstappen dia la misura di quanto gli peserà quell’erroraccio, ma allo stesso modo ciò non deve offuscare il giudizio su di lui e su quanto siano anche suoi i successi della Ferrari nella prima metà del campionato. Detto questo, Sebastia’, mapporcoilcrauto!
Incommentabile, invece, il comportamento ambiguo e ondivago che la Fia sta tenendo nei confronti delle penalità: anche nel corso del Gran Premio di Germania e proprio in capo ad Hamilton si è verificato un altro caso di giudizio controverso, espresso con frasi degne di un nuovo genere letterario, a metà fra il volo pindarico e la prosa bizantina. Gente abituata a mettere i punti, ben più importante di me che metto solo virgole, ha criticato questa mancanza di uniformità nei giudizi della Fia, asserendo, a ragione, che un campionato con un regolamento complesso ha bisogno di un sistema di penalità certo, applicato con identità di criterio. Per quanto questo sistema possa essere complesso, c’è differenza fra astruso e astrologico: che il Gran Premio di Germania diventi, allora, un’occasione di critica costruttiva e di cambiamento, allora, invece che delle solite sterili polemiche da ring post-gara.
Prossima tappa Hungaroring. Stavolta non vado da nessuna parte!