Il 21 luglio 2018, con le dimissioni di Sergio Marchionne dalla carica di Presidente, per la Ferrari si è chiusa un’era, breve ma turbolenta, segnata da tonfi e trionfi, strappi e ricuciture, ma sempre con l’obiettivo del rilancio. Alla notizia della sua morte, oltre a esprimere cordoglio e rispetto, è giusto riflettere su chi sia stato e cos’abbia rappresentato l’uomo col maglione che ha riportato la Rossa a giocarsi il Mondiale.
Esiste un quartiere a Toronto dove dicono che non sia necessario parlare e comprendere l’inglese per muoversi, perché è popolata da italiani. Tutto quel che ti serve è a portata di mano, in negozi gestiti da italiani, con albergatori, postini, perfino poliziotti italiani. Se sei abruzzese, inoltre, possono essere tranquillamente tuoi parenti. Dev’essere in una delle strade di questo quartiere che Sergio Marchionne si ritrovò quattordicenne, quando la sua famiglia originaria di Cugnoli, in provincia di Pescara, si trasferì in Canada in cerca di un migliore avvenire per i figli; dev’essere stato il ricordo della sua vita in quella strada a cementare il legame con la sua terra d’origine, difficilmente intuibile, altrimenti, nei modi manierati del manager di mezza età che dimora in Svizzera, parla in inglese con la padronanza di un madrelingua e che della sua italianità conserva a stento il nome e il passaporto. Eppure Sergio Marchionne si sentiva profondamente italiano e abruzzese, nel senso più concreto e meno retorico possibile: lavorando molto e affinando il proprio talento con anni di studio ed esperienza sul campo, era riuscito a emergere per arrivare in cima, dopo essere partito dal basso, fiero delle proprie origini ma mai acriticamente affezionato al suo Belpaese.
Dedizione, serietà, una certa dose di genialità e amore per l’azzardo, con furbizia mescolata a cinismo in egual misura: sono queste le doti che traspaiono dal suo operato e dalla sua storia, gli ingredienti di una ricetta di successo personale trasferita nelle aziende nelle quali ha lavorato e che si è trovato a guidare.
Qui non si sta celebrando un personaggio nascondendone i difetti, per una qualche forma di piaggeria acchiappaclick o per un’ipocrita empatia dovuta alla drammatica evoluzione della sua vicenda personale.
Qui si parte dai numeri, i quali dicono che Sergio Marchionne ha avuto molto meriti. Il migliore dei quali, a giudizio di chi scrive, è stato quello di essere sempre rimasto fedele a se stesso, a partire da quei maglioni tutti uguali, ostinatamente ostentati, per finire ai modi spicci e distaccati. Si può essere costretti ad adattarsi al percorso che la vita ci mette davanti , infatti, ma per non perdersi è importante affrontarlo allo stesso modo.
Chi ama la Ferrari, che sia un ingranaggio del grande Motore Rosso o un appassionato legato strettamente alla storia di Maranello, non ha mai perdonato a Marchionne il taglio chirurgico con cui ha separato la gestione precedente, quella guidata da Luca Cordero di Montezemolo e benedetta dai successi dell’era Schumacher – Todt – Brawn, dal nuovo corso plasmato secondo le sue direttive. È sembrato come se una mano iconoclasta avesse preso a sezionare chirurgicamente un qualcosa di quasi sacro, trattandolo come le parti di un gioco di costruzioni a incastro: Ferrari di qua, FCA di là, Alfa da questa parte, Lancia chissà. Ma i numeri e il tempo hanno dato ragione al freddo sezionatore, perché in quattro anni il valore di queste parti è aumentato in maniera inimmaginabile, una rarità per il mercato dell’auto. E il valore, come ci teneva a spiegare Sergio Marchionne, non significa solo grasso che cola sul piatto ricco dei padroni, ma anche qualità del prodotto, nuovi clienti, nuove possibilità di produzione, posti di lavoro sicuri e ritorni per i piccoli azionisti. E significa garantire alle aziende un futuro, una presenza. Se oggi abbiamo ancora una Fiat con tutti i suoi posti di lavoro lo dobbiamo a lui.
A chi lo ha accusato di aver tolto l’italianità alle aziende del gruppo spostandone la sede legale all’estero, ha sempre risposto che la produzione, la creazione, il lavoro sono rimasti negli stabilimenti italiani. Questo fa davvero l’italianità e banalmente è dove l’azienda opera e con quali maestranze che conta davvero.
La lezione di Sergio Marchionne è la più importante che ti insegnano quando studi discipline manageriali: è importante conoscere bene la differenza fra le aziende e quello che rappresentano. Nel caso della Ferrari, da un lato c’era una leggenda, dall’altro una struttura fatta di impianti e persone; la leggenda non si discute, si ammira e si rispetta, ma gli impianti possono rivelarsi inadeguati e le persone possono commettere sbagli, quindi è da lì che si parte. La sua idea, applicata in tutte le aziende che ha guidato, di promuovere quadri intermedi, i manager di medio livello, invece di importare da fuori questo o quel nome, ha avuto successo anche in Ferrari. Si parte dal presupposto che all’ombra di chi tiene le redini spesso siedono professionisti che amano l’azienda, che lì si sono formati e la conoscono, che vogliono crescere e che hanno spesso le idee vincenti. Non sono giovanissimi prodotti delle scuole di management né divini maestri intoccabili: sono persone che hanno voglia, esperienza e capacità, ma sono nascoste fra i ranghi. Date loro le chiavi della stanza dei bottoni e dimostreranno quanto valgono – indicava Sergio Marchionne. Così è stato, per i vari Binotto e Resta, anche a prezzo di sacrifici dolorosi, come per gli Allison.
Che io sia abruzzese è noto a chi mi legge. Che io abbia una formazione classica ben radicata si intuisce da come scrivo e che non sia più una ventenne è ormai chiaro, spero non dalle foto ma dai miei racconti. Quel che molti non sanno è che professionalmente ho un curriculum di studi manageriali affinato lavorando nella consulenza finanziaria alle aziende, oltre a essere commercialista e revisore legale. Da pescarese, non posso che ringraziare Sergio Marchionne, l’unico abruzzese finito in copertina sul Times. Da professionista il cui primo incarico è stato proprio per una concessionaria Chrysler alle prese con i suoi controlli di gestione, per il professionista Sergio Marchionne ho grande ammirazione e ammetto senza riserve che mi sarebbe piaciuto incontrarlo. Quel che avrei voluto dirgli – cercando disperatamente di non buttarla in caciara – lo scriverò qui.
Credo che l’aver tolto fondamento a tutti i riti e le formalità della figura manageriale, in primis dall’abbigliamento in stile cassa da morto, l’idea di accorciare la distanza fra chi lavora e chi dirige il lavoro, il disincanto e il cinismo dosati con equilibrio assieme a una rigorosa preparazione siano tutti precetti molto importanti. Ma soprattutto per quelli come me, per quelli che sono considerati troppo vecchi per essere giovani rampanti ma troppo acerbi per essere decisivi, Sergio Marchionne è stato importante. Quando sei un laureando ventenne sentire Steve Jobs che ti sprona a essere affamato e folle ti dà la forza per realizzare i tuoi sogni, ma se dopo qualche anno ti guardi indietro e ci ripensi capita che non puoi più permetterti la follia; la fame, invece – intesa anche come rimpianto, mancata realizzazione, delusione professionale – la temi. Ti serve anche un Sergio Marchionne che ti metta alla prova, che ti inviti a essere agile, aperto al dibattito, umile ma impavido e mai mediocre. E che non tema di essere odiato e di mettere da parte il concetto di felicità personale pur di mantenere la serietà dei propri impegni.
Quanto valgano queste rinunce di fronte alla fine di tutto non so dirlo, né se il ricordo pareggerà il peso del rimpianto. Posso solo salutare con rispetto Sergio Marchionne, l’uomo col maglione che ha iniziato il suo viaggio a piedi per le strade di Cugnoli e l’ha concluso a bordo di una Ferrari.