Non è facile raccontare la storia di Ronnie Peterson senza ricorrere al consunto binomio “breve ma intensa”, eppure, anche a rischio di consumarlo ancora di più, è proprio a quel binomio che dovremo ricorrere. Perché niente fu così breve ma intensa come l’avventura di Ronnie Peterson.
SuperSwede – come lo chiamavano – morì esattamente quarant’anni fa a seguito del grave incidente in cui era stato coinvolto alla partenza del Gran Premio d’Italia 1978, lasciando dietro di sé uno strascico di promesse realizzate e sogni infranti, ben sintetizzati da questi numeri: otto anni di carriera nella massima serie con le scuderie March, Tyrrel e Lotus, dieci Gran Premi vinti fra i quali tre edizioni del Gran Premio d’Italia, quattordici pole position, ventisei podi e nove giri veloci, più due titoli di vicecampione del mondo, uno dei quali assegnato postumo, proprio nel 1978.
Una tragica morte a Monza, un titolo post mortem e una donna speciale di nome Nina sono i topoi che legano la storia di Ronnie a quella di un altro eroe della velocità: Jochen Rindt, la prima vera icona trasversale della Formula Uno, primo – e per fortuna unico – campione del mondo postumo. La donna speciale di nome Nina, che per Rindt era la moglie, per Peterson era la figlia, una bambina piccolissima quando suo padre morì e oggi una donna battagliera, che ha lottato – purtroppo invano – per mantenere aperto un museo dedicato al padre. La storia di Ronnie, infatti, non parla solo di sfide ad alta velocità, di una passione che cerca di domare il rischio e del profumo di gomme bruciate al mattino presto, ma anche d’amore. L’amore che lo unì a Barbro, la splendida moglie che lo accompagnava nei paddock di mezzo mondo, la tragica figura che non riuscì mai ad accettare la sua assenza tanto da togliersi la vita qualche anno dopo. L’amore degli amici, a riprova che la storia di Peterson è unica anche perché sfata il mito che in una competizione di massimo livello non c’è spazio per i sentimenti, meno che mai per l’amicizia; fra tutti coloro i quali presenziarono al suo funerale e ne trasportarono il feretro, ne spiccano due: Gunnar Nilsson e John Watson. Del primo resta indelebile l’immagine del campione incompiuto reso irriconoscibile dalla malattia, che lo costrinse ad abbandonare prematuramente il sogno di correre e lo strapperà alla vita di lì a poco; del secondo rimane la grande generosità che mostrò nel prendersi cura di Barbro e Nina, letteralmente adottando la famiglia del suo amico e rivale.
Veloce, velocissimo, per alcuni il più veloce della sua generazione, per Niki Lauda il più grande pilota che non abbia mai conquistato un titolo del mondo. Nella storia di Ronnie, infatti, si parla anche del campionissimo austriaco che si ribellò al destino che le fiamme del Nürburgring avevano scelto per lui: si dice che fu l’indiscrezione che Ferrari volesse ingaggiare proprio il talentuoso e velocissimo Peterson al suo posto a convincerlo a tornare a correre dopo soli 42 giorni dal suo terribile incidente nel 1976. Oltre ai campioni, però, in questa storia c’è posto anche per gli illustri sconosciuti, per le meteore fuggenti dell’epoca d’oro della Formula Uno, come Peter Gethin, passato alla storia per aver vinto la sua unica gara – il Gran Premio d’Italia del 1971 – con il minor scarto cronometrico mai registrato sul secondo classificato: appena 0,01”, proprio su Ronnie Peterson, sulla pista che più di tutte amava.
Il 10 settembre 1978, infine, il circo aprì i battenti per il grande spettacolo di Monza. È questo il luogo fatale scelto dal destino per l’ultima, crudele messa in scena della storia di Ronnie. Ingabbiato dalla Lotus in un contratto da seconda guida – che di fatto lo obbligava a comportarsi come scudiero di Mario Andretti – e costretto a disputare la gara su una versione obsoleta della monoposto ufficiale, con la quale aveva avuto una serie di problemi culminati in un incidente nel warm-up, Peterson partiva con l’unica certezza di un ingaggio con la McLaren per la stagione successiva e con la voglia di dare il tutto per tutto. Poi quel via anticipato per errore, le prime vetture che sfilano senza problemi al contrario di quelle che seguono, che si colpiscono l’una con l’altra, in un terribile, interminabile e macabro flipper. Nelle fasi convulse che seguirono, fra ritardi e incomprensioni, fra detriti e fiamme, quel giorno alcuni volontari smisero di essere semplici appassionati e diventarono leoni, i Leoni della Cea Squadra Corse, i primi che arrivarono a prestare soccorso ai feriti assieme agli altri piloti – fra i quali James Hunt – rimasti coinvolti nell’incidente. La storia di Ronnie Peterson si conclude così, con un atto di coraggio reso vano dall’ennesima beffa del destino: salvato dalle fiamme e trasportato in ospedale, non supererà l’intervento chirurgico al quale fu sottoposto per ridurre le fratture che aveva riportato.
Nella storia di Ronnie Peterson e della Formula Uno che lui amava si fondono il riverbero delle icone di questo sport con l’eco delle gesta di un passato che diventa remoto, la bellezza struggente dei sentimenti contrasta con l’amaro sapore delle polemiche e lo sfavillare del coraggio oscura la freddezza di punti e classifiche. Una storia fatta di tante storie, breve ma intensa come la vita di Ronnie Peterson.