Un urlo al cielo, nel momento in cui forse meno si aspettava di essere lì. Un urlo al cielo, diverso da un anno fa, l’urlo di una persona a cui hanno detto che esiste sempre una seconda occasione, ma che, finché non gli è successo davvero, ha creduto che gli fosse stata detta una bugia a fin di bene. Un urlo di chi vuole riprendersi qualcosa che ha perduto e che temeva non sarebbe tornato più. L’urlo di Sascha Zverev, che ha appena sconfitto Tomas Etcheverry per raggiungere la terza semifinale di fila al Roland Garros è un momento di redenzione, più che una prova di resilienza. D’altronde, il termine resilienza non è adatto a chi, di sfide, in carriera ne ha affrontate già tante, anche se negli anni non era mai sembrato, così convinti noi di avere di fronte un predestinato che si divertiva con questa etichetta e non un ragazzo che, in fondo, ha sempre cercato di dirci, neanche troppo tra le righe, che detesta la pressione e le attenzioni.
Un anno fa Sascha Zverev si rifiutava di lasciare a un impietrito pubblico parigino il ricordo di lui che usciva dal campo in sedia a rotelle piangendo come un bambino. Era rientrato un’ultima volta sul Philippe Chatrier, portato in spalla da Rafa Nadal, con le stampelle e il piede scalzo e penzolante, a salutare i tifosi, consapevole che, oltre al torneo, a essere finita era anche la stagione. Il tedesco si era appena rotto sette legamenti della caviglia destra nel tentativo di rientrare verso il centro da un generoso un recupero difensivo. Maledetto fu il tetto chiuso nonostante non piovesse e il campo colpevolmente troppo umido. Il calvario era iniziato così. L’operazione, nel tentativo di recuperare al più presto la mobilità perduta. Il tentativo di rientro, troppo affrettato, a settembre in Coppa Davis. L’edema osseo al piede operato e l’arrivederci al 2023, con l’uscita dalla top ten a fine 2022, per la prima volta dopo cinque anni. E i dubbi. I dubbi che inevitabilmente affollano la mente dopo un lungo stop: tornerò come prima? Ritroverò la stessa mobilità che avevo? Quanto saranno cresciuti gli altri mentre io sono rimasto fermo?
In realtà, a chi ha visto più di una partita di Zverev quest’anno sarà presto sembrato chiaro che il problema non fosse nel fisico, ma nella testa. La testa che poi si riflette sul braccio, paralizzandotelo al momento di ottenere un risultato importante. Come era successo negli ottavi di finale a Indian Wells contro Medvedev, partita in cui il tedesco ha chiuso con appena due palle break sfruttate su 17. O negli ottavi di finale a Monte-Carlo, sempre contro Medvedev, dove maledetta fu una risposta di rovescio fuori di metri sul primo match point. O negli ottavi di finale a Madrid, contro Alcaraz, una sfida ancora troppo proibitiva per un Sascha ancora convalescente. Avesse perso subito al Roland Garros, Zverev sarebbe uscito dalla top 70. E, tra chi era sul Simonne-Mathieu durante la partita di primo turno contro il sudafricano Lloyd Harris, il sospetto era che la sconfitta sarebbe arrivata presto. Non magari così presto, ma relativamente presto. Poi però, Sascha ha avuto “un regalo”. La possibilità di esorcizzare subito i propri demoni: sessione serale di ripiego sul Philippe Chatrier, secondo turno contro lo slovacco Alex Molcan. Sul luogo in cui era avvenuto il delitto. Ed è forse in quel momento che qualcosa è cambiato. Più o meno mezz’ora prima che cominciasse la partita, le telecamere di Amazon hanno immortalato il tedesco entrare in campo, accovacciarsi lì dove ha rischiato di vedere infrangersi la propria carriera e rimanere lì per qualche secondo. Il tempo di metabolizzare. Il tempo di accettare. Da lì, forse, è cominciato un altro torneo. Spazzato via Molcan, piegato Frances Tiafoe, per la prima contro un top 20 dopo l’infortunio, dominato Grigor Dimitrov, schiacciato sulla diagonale di rovescio, la certezza a cui Sascha è rimasto aggrappato anche nei giorni più bui, sicuro che non avrebbe mai dimenticato il gesto che gli è mancato di più. Infine, domato Tomas Etcheverry, in quattro set, di “garra”, per capire che nessun ritorno passa dalla lotta di sangue, sudore e lacrime, sì, ma belle.
Fin dalla settimana in cui, nel 2014, un diciassettenne biondo con i capelli lunghi si spingeva in semifinale nel torneo di casa, ad Amburgo, sfruttando la wild card concessagli dagli organizzatori, prima di raccogliere un unico game contro David Ferrer, di Zverev si parlò come di un predestinato. Come oggi si parla di Alcaraz, per intenderci. Eppure, a ben vedere, dal broncio perenne in conferenza stampa, dalla difficoltà a raccontare qualcosa in più di sé, dal carattere umorale e fumantino, forse era già prevedibile che Sascha non avrebbe avuto vita così facile nel realizzare i propri sogni. Quel che non si sapeva è che questo ragazzo che aveva ancora soltanto 17 anni, già era stato dato per finito, dai medici che, diagnosticandogli il diabete di tipo 1, gli avevano detto che non sarebbe mai stato in grado di giocare a tennis a livello agonistico. Quattro anni dopo, Zverev sarebbe passato da una seconda delusione in grado di ammazzare una carriera: perdere una finale Slam da due set e break di vantaggio – sia nel terzo set che nel quinto. “Ci penso venti, venticinque volte al giorno, di notte e nei miei sogni”, disse per spiegare il proprio stato d’animo. Nove mesi dopo avrebbe vinto le Olimpiadi, che nel tennis non valgono quanto uno Slam, ma che nella vita di un uomo di sport sono il tesoro più prezioso che ci si possa mettere al collo. Venerdì 9 giugno 2023, esattamente 371 giorni dopo un infortunio che sembrava averlo spezzato un’altra volta, Zverev proverà a tornare in finale di uno Slam, 999 giorni dopo gli US Open 2020, nel torneo poi vinto dall’amico Dominic Thiem, che lui, sì, dopo essersi rotto un tendine del polso destro, in realtà non è mai veramente tornato. Tra lui e il sogno, il norvegese Casper Ruud, finalista uscente, sensibilmente migliorato negli ultimi due anni, ma che se inchiodato dal lato di rovescio, lì dove Sascha si sente a casa, forse qualcosa potrebbe concedere. Non è detto che succeda, ma se dovesse succedere, la finale avrebbe un protagonista a cui il tennis ha restituito qualcosa che gli aveva tolto in precedenza
Torneo femminile, la seconda semifinale è Swiatek-Haddad Maia
Beatriz Haddad Maia è in semifinale al Roland Garros. Nei quarti la 27enne di San Paolo, n.12 del ranking e 14 del seeding, ha battuto in rimonta per 3-6, 7-6, 6-1, dopo quasi due ore e mezza di battaglia, la tunisina Ons Jabeur, n.7 WTA e settima testa di serie. Per la brasiliana è la prima semifinale a livello Slam. Affronterà giovedì la polacca Iga Swiatek, n°1 del mondo, che ha superato 6-4, 6-2 la statuntense Coco Gauff. Nell’altra semifinale si sfideranno Muchova e Sabalenka.