in

L'Emilia Romagna di Paolo Rossi: viaggio nella carriera del “decano” dei coach di Serie A2

L'Emilia Romagna di Paolo Rossi: viaggio nella carriera del "decano" dei coach di Serie A2

La voglia di rimettersi in gioco, anche dopo che la tua carriera da coach è iniziata da 42 anni, dopo tanti trofei, 26 stagioni e ben 728 panchine di Serie A1 alle spalle. Tutto per sposare un progetto che a quella categoria crede, per riportare una piazza storica nella massima categoria: all’età di 71 anni, Paolo Rossi ci prova ancora, e con grande entusiasmo.

Faenza, comune di quasi 60mila abitanti in Romagna, dal canto suo ha vissuto ben 55 stagioni di A1. Un’esperienza intensa, quella del Club Atletico, chiusa nel 2012/2013: da quelle fondamenta è partita Faenza Basket Project, la società del presidente Mario Fermi con una solida presenza sul campo, quella di Simona Ballardini. Che al PalaBubani ha provato a far rivivere le emozioni di un tempo con una delle partite più iconiche della nostra pallacanestro recente, lo spareggio per l’A1 contro Vigarano. Era tornata “La zona dei miracoli”, come la definisce Rossi, e con piena ragione.

Dopo due anni da giocatrice e coach, coadiuvata da Cristina Bassi, Ballardini ha deciso di fare un passo indietro, dedicarsi al campo da giocatrice e ha richiesto alla società l’arrivo di un coach di esperienza come Rossi, che l’aveva allenate nell’epopea d’oro del basket faentino. Era convinta che potesse avere la ricetta vincente. Il coach racconta: «Quest’estate sono stato chiamato dal presidente Mario Fermi: mi ha detto che Ballardini aveva pensato di fare solo da giocatrice e che avrebbe accettato volentieri un mio ritorno: ho pensato che fosse un segno del destino, ho accettato con piacere per dare una mano. Mi sono sentito in dovere». Per vivere un’avventura nel presente in una delle sue piazze storiche, costruendo nuovi ricordi accanto a quelli che oggi, specie per il pubblico dei giovani, sono un po’ sbiaditi: «Allenando le giovanili con Rimini ho sempre incontrato le squadre che ho allenato nella mia carriera e, dopo averle viste vincere tanto, vederle ora mi ha dato un po’ tristezza. Un giorno siamo andati a giocare a Parma: le ragazze prima della partita guardavano le foto storiche nell’impianto, foto di Coppe e Scudetti. Il loro sguardo spesso andava sull’allenatore, mi dicevano “Coach, questo ti somiglia”: anche perchè ero io…».

La sua storia, pur con esperienze brevi a Chieti, Venezia e Vittuone, ha un preciso filo conduttore: l’Emilia Romagna. Il coach romano di nascita, dopo una buona carriera da giocatore (soprattutto Pesaro, Rimini e Pescara), comincia dal 1978 quando entra nello staff di Rimini. Nel frattempo la sua vita era cambiata, era diventato padre (suo figlio Pierfilippo avrebbe avuto una lunga carriera cestistica) e come tanti, stava cominciando a costruire per il futuro. Rimini è la sua casa per i primi passi della sua nuova vita, lo sarà a lungo e non è un caso quando torni nella maschile sarà proprio coi Crabs.

Sbarca nel femminile nel 1985, a Cesena, e ci resta per sette anni. Forse i momenti più magici di quell’esperienza le due annate 1989/1990 e 1990/1991: vince uno Scudetto e una Coppa Campioni in un’epica Final Four a Barcellona. La squadra è solidissima con due straniere di grande livello come Loyd e Davis e una spettacolare Catarina Pollini a guidare il forte gruppo delle italiane. Ha tantissima resilienza e non molla mai: la finale Scudetto con Cesena è un capolavoro, sotto 0-2 contro Como l’Unicar piazza una rimonta incredibile. Il coach la commenta così: «Avevamo una grande squadra, ma facemmo fatica in primavera perchè Davis era tormentata dall’allergia. In finale Scudetto sostanzialmente non giocò la prima gara (3 punti), fece meglio nella seconda ma andò comunque male (7): aveva grossi problemi di respirazione. Sullo 0-2 parlai alla squadra, dissi che ci dovevamo reinventare e giocarcela: lei ci sarebbe stata, ma non potevamo contare solo su di lei. Cominciammo la rimonta e migliorarono le condizioni di Davis: dopo lo zero in Gara 3, segnò 19 punti nella quarta e 22 nella quinta: stava meglio ogni giorno che passava. Alla fine questo grande gruppo vinse lo Scudetto».

Dopo un’impresa del genere, sembra quasi uno scherzo la vittoria in Coppa Campioni dell’anno dopo, stendendo Sporting Atene ed Arvika nelle Final Four di Barcellona. «In Coppa abbiamo sofferto in semifinale, poi è andata meglio in Finale. In quelle Final Four lanciai in quintetto Schiesaro, allora diciassettenne, che poi avrei ritrovato anche in future esperienze da coach. Quel trofeo era il risultato di un gruppo meraviglioso e di una società nuova, giovane e appassionata».

Tempi d’oro del nostro basket, ricorda il coach: «Quegli anni sono stati eccezionali, eravamo 20 anni avanti a tutti come organizzazione e come seguito. Lì pensavo che il basket femminile potesse prendere il volo: in casa giocavamo davanti a 4mila persone, Como per i grandi eventi si spostava al Pianella, 5mila posti, per accogliere tutti. A Barcellona eravamo circa mille persone, un fatto unico». In più, c’erano entusiasmo e fondi: «Ho sempre avuto la fortuna di scegliere italiane da nazionale e le migliori straniere, ancora la WNBA non c’era e in Italia arrivava il meglio».

Succederà anche a Parma, dal 1992: subentra dopo l’undicesima giornata a Gaspare Borlengo e lì ha un’altra esperienza lunga anche se in due fasi (di mezzo, due anni in A1 con Vittuone). La sua prima squadra è davvero di altissimo livello con due straniere come Cynthia Cooper (31.6 punti di media quel campionato) e Paula McGee. Con loro strappa una Coppa Ronchetti, lo zenit di questa prima fase parmense: l’anno successivo lotta per il tricolore, ma Cooper va ko sul più bello: nel 1995/1996 il divorzio da Parma a campionato in corso. Rimane la consapevolezza di aver allenato una giocatrice generazionale, contribuendo anche ai suoi progressi: «Gli anni con Cooper sono stati fantastici: realizzatrice strepitosa, faceva canestro in ogni modo: avrebbe fatto 20 di media anche giocando coi maschi, io da giocatore non sarei riuscito a marcarla! Con me è migliorata – aggiunge – perchè ha inserito il tiro da tre, inizialmente andava sempre dentro. Le dissi di lavorare sul tiro, lei mi rispondeva “Coach, andando in penetrazione faccio 30 col 70% dal campo, perchè tirare da fuori?”. Le risposti di farlo perchè esser pericolosa da tre le avrebbe reso più facile poi penetrare: ci pensò e migliorò anche quello, diventando una grande tiratrice e sempre più difficile da marcare per le avversarie».

Con Cooper e compagnia vince anche una Coppa Ronchetti, nel 1993 contro la Poznan di una giovanissima Margot Dydek:  «Dopo il +29 a Parma dell’andata, andammo in Polonia per il ritorno della finale. Già un’ora prima della partita 5mila persone erano presenti al Palazzetto. All’ingresso in campo mostrarono tutti un cartello con scritto “90-60”. All’inizio non compresi, ho pensato subito “Sono matti questi polacchi!”, poi capimmo che era un modo per spingere la squadra a ribaltare il risultato. Era una bolgia, a tre minuti dalla fine, eravamo avanti di tre, loro cominciarono a esser più fisiche, mi lamentai con gli arbitri che non fischiavano più: mi fecero notare che, con quell’ambiente, forse era il caso di mollare la presa sulla partita. Cosa mai più fatta in vita mia, chiamai timeout e feci capire alla squadra la situazione: era importante non rischiare infortuni perchè c’era il campionato da giocare. Finimmo comunque col vincere di misura, con Cooper protagonista nel finale». Quella era Cynthia Cooper.

Rossi torna a Parma durante i Playoff del 1999: vince la Coppa Ronchetti, poi finalmente torna al successo in Italia, nel 2001 arriva lo Scudetto. Con la Cerve dell’indimenticabile Yolanda Griffith. di Grubin, ma anche di tante italiane di livello come Costalunga, Balleggi, Gardellin. Griffith era l’icona di quella squadra, Rossi la racconta così: «A stagione in corso Yolanda si era liberata e voleva venire in Europa, convinsi il mio presidente a fare uno sforzo, un po’ per rinforzarci un po’ per toglierla alla competizione. Era incredibile: se decideva di vincere vincevamo, prendeva pochi tiri ma collezionava una vagonata di rimbalzi d’attacco da convertire in punti. Non la voleva neanche la palla, si prendeva 4-5 tiri “costruiti” a gara, per il resto se la prendeva a rimbalzo e segnava. Giocatrice unica, mi viene difficile fare un paragone anche con gli uomini. Era sempre sulla palla e aveva una voglia di vincere grandiosa».

I primi approcci con Faenza nel 2002, un’avventura che, con un salto nella maschile di mezzo dura nove anni. Proprio lì inizia la corsa con Simona Ballardini, che si ferma in due finali scudetto, una nel 2005 e l’altra nel 2007. «Faenza è davvero la zona dei miracoli. Un anno partivamo con aspettative basse, da decimo posto e arrivavamo in finale. Facevamo le squadre in gran parte con giocatrici che non trovavano spazio altrove e venivano da noi per rivitalizzarsi: è quello che siamo riusciti a fare, in quelle annate, con giocatrici come Franchini e Ramon, ad esempio. Il 2007 fu una stagione unica: finale di Eurocup (persa con la Dinamo Mosca), Coppa Italia vinta e finale Scudetto (persa). La squadra secondo molti non era attrezzata per fare soltanto una di quelle finali, figuriamoci tre. Nella serie con Napoli patimmo gli infortuni di Ballardini ed Eric: abbiamo lottato fino alla fine e sono convinto che al completo l’avremmo vinta, in rimonta. Nel complesso, di questa esperienza ricordo un grande pubblico e risultati sopra le aspettative».

Tanto che la percezione di Faenza, secondo Rossi, cambia: «Prima era considerata una squadra da medio-bassa classifica, non un reale pericolo per le big. Un giorno mi chiamò il presidente Piombini e mi disse: “Prima le altre squadre mi davano giocatrici in esubero e io facevo campionati con loro, valorizzandole. Ora non succede più”. Era quello il salto di qualità che avevamo fatto: le altre non ci potevano rinforzare, perchè rischiavamo di batterle. Avevamo cambiato dimensione: e forse la società non era preparata a un salto così grande».

E alla lunga è così: per il Club Atletico suona l’ultima sirena alla fine del girone d’andata della stagione 2012/2013. «L’ultimo anno è stato difficile, aiutai in quella situazione anche con la costruzione della squadra, ma non ci fu nulla da fare. Tra dicembre e gennaio ci venne comunicata la chiusura, è stata un’esperienza traumatizzante, da coach puoi aspettarti l’esonero ma non questo. Quell’esperienza fu molto scottante, pensai di tornare a Rimini e seguire di più la famiglia, i nipoti, tornare a casa».

Il coach, dopo un nuovo viaggio nella maschile, che torna nel femminile per tre anni nel settore giovanile di Rimini, mettendo la sua esperienza al servizio delle più giovani, da buon saggio. Fino alla chiamata del Faenza Basket Project, ricordi del passato che ritornano e una nuova avventura che non si può rifiutare: perchè ricominciare è possibile, e non si smette mai di sognare.

(Foto da “Ahena Basket Cesena”)

Fonte: http://feeds.pianetabasket.com/rss/


Tagcloud:

A2 – Liberi tutti: la Juvecaserta ringrazia i tifosi e scioglie le righe

UFFICIALE: dalla Fipav stop definitivo a tutti i campionati