MODENA – Al settimanale ELLE l’azzurra Miriam Sylla si è raccontata a Federica Furino. Un bello spaccato delle origini della giovane schiacciatrice palermitana. Intervista raccolta prima del rinvio al 2021 delle Olimpiadi di Tokyo2020.
————
Per capire la verità su Miriam Sylla, schiacciatrice della Nazionale di volley e dell’Imoco Conegliano, nata a Palermo da genitori ivoriani e diventata italiana a 15 anni, conviene partire dagli anelli d’argento che le illuminano le orecchie e il naso. Ognuno, dice, le ricorda un dolore, perché “si deve aver memoria del bello e del brutto”.
Lei pero, a dispetto degli infiniti piercing, è una ragazza piena di sorrisi. Fin qui, le ragioni non le sono mancate: ha appena vinto la Coppa Italia di serie A femminile, in campionato è in testa alla classifica, in semifinale di Champions League e, in bacheca, ha già archiviato una Supercoppa e un Mondiale per club. Ora pero, questa stagione che sembrava inarrestabile è sospesa, in una pausa irreale. Come tutto lo sport italiano, fermato dal Coronavirus. “E’ un momento strano, ma lo vivo come giusto che sia: senza far drammi con l’idea che ogni cittadino debba fare la sua parte perché la situazione si stabilizzi. L’unione fa la forza e noi atleti lo sappiamo. L’Italia e lo sport ripartiranno più forti”.
Fin qui per lei è stato un anno magico.
“Se stai a pensare a quello che hai vinto, ti fermi li”.
Come ci è finita a giocare a pallavolo?
“Colpa di mia cugina. All’inizio ero un disastro, poi ho capito che era la mia strada. L’allenatore mi ha detto: io ti porto in serie A. Che in sé era una follia perché quella era più o meno la squadra dell’oratorio”.
Invece ci aveva visto bene.
“Ho avuto la fortuna di trovare tante persone disposte a investire su di me. Che ero una ragazzina di un metro e ottanta con niente più che quel fisico a cui attaccarsi”.
Ci avrà messo anche dell’altro oltre al fisico, no?
“Fosse stato per la testa bacata che avevo a 17 anni non sarei andata da nessuna parte. A quell’eta pensavo: il mondo è mio, posso fare tutto quello che voglio. Ovviamente non è cosi, ma mi ci sono voluti anni per capirlo. I miei, infatti, di lasciarmi andar lontana per giocare non ci pensavano. Sapevano chi avevano in casa e temevano disastri. Convincerli è stata dura”.
La testa si è aggiustata?
“Ogni tanto sbarello ancora. Ho un carattere difficile e non nego che le mie compagne di squadra sono brave a sopportarmi. Ma, per contro, do tutto quello che ho. Il giocatore che sono dipende dalla voglia di riscatto che ho dentro».
Riscatto da cosa?
“Dalla vita che ho fatto quando ero piccola. I miei genitori erano originari della Costa d’Avorio. Lavoravano tantissimo, facevano le pulizie. Soldi ce n’erano pochi, e i sacrifici erano all’ordine del giorno. Li vedevo rinunciare a tutto e pensavo: non dovrà più succedere che non possa comprarmi qualcosa che voglio. Crescendo il ‘voglio comprarmi questa cosa’ è diventato ‘voglio arrivare lì, poter dire: ce l’ho fatta”.
Che genitori sono stati i suoi?
“Mi hanno insegnato a rimboccarmi le maniche e a far fronte a ogni difficolta. Il primo a venire in Italia è stato mio padre con mio zio. Avevano studiato come periti informatici e pensavano che in Italia ci fosse lavoro. Invece, si sono trovati a dormire per strada, a Bergamo, in pieno inverno. Quando mio zio ha rischiato di perdere un piede per il freddo, sono partiti per Palermo. Ma anche li sono finiti per strada. Finché papa non ha incontrato il suo angelo custode: una donnina bassettina e bionda che l’ha caricato sulla sua 500 e se l’è portato a casa. L’ha sfamato e poi l’ha assunto per fare le pulizie. Si chiama Maria.
Da quando ho aperto gli occhi, lei e suo marito Paolo sono stati i miei nonni. Ma atti di bontà gratuita ne ho visti molti”.
Che cosa intende?
“Sono state tante le persone disposte a aiutare papà nonostante non avesse nulla da dare in cambio. Non so che cosa facesse per attirare tutto questo bene. Quando decisero di tornare al Nord, cercarono una babysitter per me. Ecco: dopo due giorni, disse che non voleva essere pagata. Stavo con lei tutto il giorno e a volte anche la notte. La chiamavo zia Anna. Buono nelle persone ce n’è, e anche tanto. Bisogna soltanto capire dove”.
Purtroppo però non c’è solo il buono.
“C’è anche il razzismo e l’ho conosciuto. Quando andavo a scuola, mi è capitato che mi insultassero per il colore della mia pelle. Ma i ragazzini sono cattivi, ti attaccano sulla prima cosa che vedono, la usano per farti credere di essere diverso. Se fossi stata cicciottella, mi avrebbero bullizzata per quello”.
Li giustifica?
“No, affatto. Ma quegli insulti sono stati una delle cose che mi ha spronato a combinare qualcosa nella vita. Volevo essere migliore di loro e alla fine ci sono riuscita. La bambina nera che prendevano in giro ora indossa la maglia della Nazionale e rappresenta anche loro. Questo per me non ha prezzo”.
Le piace portare il Tricolore?
“E’ un orgoglio. Ma non lo considero strano. Io sono nata in Sicilia. Il Paese di origine dei miei l’ho visto a otto anni”.
Però è diventata ufficialmente italiana a 15.
“L’idea di non appartenere a nessuno è la cosa che mi ha ferita di più. Avevo un passaporto verde quando gli altri ce l’avevano rosso e non capivo il motivo. Anche perché sopra c’era scritto che ero nata a Palermo. Non appartenevo né alla Costa d’Avorio, nonostante il colore della pelle, né all’Italia per quanto mi sentissi al 100 per cento italiana. Io ho sentito di esistere realmente solo a 15 anni quando ho indossato per la prima volta la maglia azzurra. Ero italiana e nessuno poteva più negarlo”.
Gli atleti italiani di seconda generazione a Tokyo saranno molti. L’azzurro si tinge di molti colori.
“Questo Paese sta cambiando. Avere in Nazionale atleti con più melanina e atleti con meno melanina è una figata pazzesca”.
La sua storia somiglia a quella di Paola Egonu, che è sua amica, compagna di squadra e di Nazionale.
“Anche i suoi genitori erano immigrati e hanno costruito tutto da zero lavorando duro come i miei. Ma forse io e Paola abbiamo esperienze diverse a livello di razzismo, e soprattutto caratteri diversi. lo non pretendo di cambiare la testa delle persone, basta che non mi disturbino. Non perderò mai il mio tempo per aprire gli occhi a chi non lo merita”.
Le capita ancora di trovare persone con gli occhi chiusi?
“Certo. Ma io combatto tutto con un bel sorriso. Sono una persona serena”.
E tutti quei piercing, allora?
“L’ultimo l’ho fatto quando è morta mia madre, un anno fa. Ho ancora delle crisi. Crollo perché mi manca parlare con lei. lo pretendo sempre di essere forte, e invece a volte bisogna lasciarsi andare. Mio padre mi manda delle foto mie e mi dice: ‘Che bel lavoro abbiamo fatto io e tua madre’. Voglio che lei da lassù continui a pensarlo”.
La diffusione del Coronavirus sta mettendo a rischio anche le Olimpiadi. Il Coni dice di allenarvi, ma molti ipotizzavano che verranno rimandate come l’Europeo di calcio. Come vive l’attesa?
“Prima di Rio contavo i minuti, impazzivo dalla voglia di essere là. Poi è stato un disastro. allora adesso cerco di non pensarci. Quando sarò sull’aereo per Tokyo ci credero”.