Il progetto ‘All-In Brescia’ ha preso il via nel segno della Leonessa. David Moss, capitano della Germani Basket Brescia, ha partecipato in qualità di ospite speciale alla giornata inaugurale dell’evento organizzato da AIB (Associazione Industriale Bresciana) per raccontare la propria storia di diversità e integrazione, nella pallacanestro come nella vita di tutti i giorni.
Il tema di ‘All-In Brescia’ – evento iniziato lunedì 14 ottobre e in programma per l’intera settimana con una serie di iniziative ed incontri a Brescia e provincia – si concentra, appunto, sulla convivenza multiculturale e l’inclusione sociale in diversi ambiti, a cominciare proprio dall’esempio portato dal mondo dello sport, per diventare ricchezza ed ossatura sulla quale costruire una crescita sempre più proficua del mercato del lavoro.
La serata ha visto dialogare alla tavola rotonda due grandi campioni: oltre al nostro David Moss, anche l’ex capitano e ora vicepresidente dell’Inter, l’argentino Javier Zanetti, ha svelato momenti e retroscena dell’esperienza italiana, spiegando cosa ha rappresentato avviare una carriera con un bagaglio colmo di sogni ed incertezze, approdando in un altro Paese nei panni dello ‘straniero’. Presente al tavolo degli interventi anche la dott.ssa Caterina Gozzoli, direttore dell’Alta Scuola di Psicologia A.Gemelli, che ha introdotto tematiche sociali calate in ambito sportivo.
Dopo i saluti istituzionali di Roberto Zini, Vice Presidente di AIB e del Vice Ministro degli Interni, Vito Crimi, la parola passa ai protagonisti. David Moss racconta e si racconta, intrecciando episodi sul parquet a momenti di vita vissuta nel quotidiano, fin dal suo primo giorno in Italia: “Quando sono arrivato in Italia circa quattordici anni fa, precisamente a Jesi dopo un anno piuttosto difficile in Polonia, mi è sembrato di respirare aria nuova: è stata una grande occasione per me, perché ho trovato persone genuine, buon cibo e un clima accogliente. Ho imparato ad apprezzare i piccoli gesti, come la pazienza nei miei confronti, anche nel momento in cui nella mia testa mi dicevo: ‘Forse non appartengo a questo posto, forse non dovrei essere qui’. Sono stato molto fortunato”.
Oltre alla connotazione puramente sportiva del ruolo ricoperto in squadra, un giocatore è, per definizione, un modello al quale le persone, soprattutto i più giovani, si ispirano: “La mia responsabilità sociale è rivolta innanzitutto alle persone e a chi mi guarda come un esempio – continua il capitano – il che, per me, significa semplicemente raccontare la mia storia, così che, magari, qualcuno possa prendere qualcosa della mia esperienza per provare a diventare anche meglio di quanto io non sia stato. Durante la crescita le figure femminili della mia famiglia hanno avuto un ruolo fondamentale: non ho avuto una figura paterna, ma mia madre, mia nonna e mia zia hanno rappresentato davvero tutto per me, sostenendomi nel processo di evoluzione. Perché, lo ammetto, mi ci sono voluti anni per diventare la persona che avrei voluto essere per gli altri: punto sempre a migliorarmi ed è questo il mio obiettivo per il futuro”.
Integrazione, diversità ed inclusione: quest delicati concetti hanno toccato in prima persona anche David Moss, che ne ha vissuto sulla propria pelle il significato: “Le prime volte in cui giravo per le varie città nelle quali ho giocato, c’era sempre un problema: guardavo la gente intorno a me e percepivo che le persone si domandassero “Chi è questo?”, probabilmente a causa del colore della mia pelle, dei tatuaggi o perché sembro totalmente diverso dagli altri: sono sensazioni e scambi di energia che, purtroppo, si percepiscono molto bene. Poi, però, quando le persone capivano chi ero, allora la reazione cambiava completamente nei miei confronti, ed ero riconosciuto come ‘David Moss, il giocatore di pallacanestro’. Ancora una volta, mi sono sentito fortunato. Per chiunque altro non sia famoso o facilmente riconoscibile, allora questo problema diventa invece ben più grande e non dovrebbe essere così”.
Infine, chiamato ad una riflessione riguardo la questione, del tutto attuale, di insulti e commenti a sfondo razziale da parte di alcune tifoserie, il capitano conclude: “Nei palazzetti capita, a volte, di sentire insulti da alcuni tifosi di piazze particolarmente calde ed è davvero spiacevole. Un conto è tifare la propria squadra, incitarla e sostenerla sportivamente, un altro è insultare. Credo ci sia una linea ben precisa che non debba mai essere oltrepassata, ma purtroppo il problema ancora esiste ed è certamente la parte meno bella del nostro lavoro e dello sport in generale”.