ROMA – Da loro, in Russia, si usa dire: “Se non rischi qualcosa non berrai mai champagne!”. Daniil Medvedev è lì che rischia da mesi, è da mesi lì sulla cresta dell’onda, a dondolarsi. Solo che al posto della tavola da surf sfoggia, da mesi, una racchetta che risponde al suo volere come mai era capitato in precedenza (né a lui né, per la verità, alla racchetta). E così è arrivato allo champagne. Vincere a Cincinnati il suo primo Atp 1000 significa almeno un centinaio di cose, forse di più. E tutte insieme, tutte parte di uno schema evolutivo impressionante. Se Daniil è adesso uno che “spacca”, una volta s’era fatto la nominata di colui che “spaccava”: sì, ma le racchette. Aveva il grilletto facile e i nervi a fior di pelle. Come succede, di solito, a chi si sente insicuro, oppure inappagato. Giocava bene e tuttavia, colpa anche degli scatti d’ira e della sua evidente (anche se nascosta) irrequietezza, quel suo belvedere, quel suo bel colpire e bel mostrare non erano mai abbastanza, mai sufficienti. Si teneva a galla con qualità ma non andava oltre. Il talento c’era. Tantissimo. Per di più distribuito in modo armonioso tra fisico e tecnica. Eppure soltanto oggi, ancor giovane (23 anni), pare aver trovato, dopo mille circumnavigazioni intorno al senso del tennis e della vita, il modo corretto di sfruttare il dono, lo “shining”: trasformando le partite di tennis in una partitura.
Il tennis di Danil Medvedev è un’orchestra che suona. Non ha cadute, se non controllate e scritte sul pentagramma dello scambio. Non ha sussulti, se non quelli richiesto da un’operazione magari più complessa di altre (diciamo uno smash arretrando). Quando colpisce con il rovescio pare che sia la mano, e non la racchetta, ad eseguire: è di una naturalezza quasi fastidiosa. In più adesso, ed è ciò che lo ha reso praticamente insuperabile nell’ultimo mese (18 partite in 20 giorni, un 14-2 come saldo tra vittore e sconfitte nel tour nordamericano, tre finali consecutive), può contare su un dato inedito: la solidità mentale. Che è causa ed effetto, insieme, del saper vivere il campo finché lo richiede la situazione. E non staccare come faceva prima, spesso per ragioni misteriose. E non “sciogliere” come faceva prima, per rendere più luminoso l’avversario. Della generazione di tramite (non Next Generation né “classici”), Medvedev è il campione meno usurato, paradossalmente. Ma anche il più esperto ormai. E non è un elemento da poco. Si presenterà allo Us Open da n. 5 del mondo e da n. 1 della “race per le Finals (ossia è il più vincente nell’anno solare: 44 partite).
I russi dominano nel tennis moderno, sono ovunque. Tra uomini e donne sono nettamente, anche se spesso sotto altre bandiere, il paese più rappresentato. E quindi sono la scuola che più di altre si è permessa il lusso di uscire dai confini, apprendere altrove ma anche trasmettere altrove la propria storica sapienza. Di russi al comando, tuttavia, il tennis maschile, era un po’ a digiuno. Mancavano, i russi lassù, dai tempi di Davydenko (e prima ancora di Safin), che fu il 5° del mondo nel 2010. Medvedev è un prodotto consequenziale. Sta a Davydenko come Davydenko stava a Safin. Ma è anche un prodotto intermedio (mescola le qualità dei suoi due connazionali e predecessori al top). Ha qualcosa della resistenza “spagnola” e alcuni seducenti tratti di quella competenza creativa degli slavi che rende i ragazzi venuti dopo Djokovic e Ivanovic (compreso Raonic) un portale tematico e stilistico che separa e unisce il tennis occidentale e certe fantasie orientaleggianti (un po’ più di capricci, spesso più estro). Per battere Djokovic nella semifinale di un 1000, specie dopo aver perso il primo set, servono queste ed altre virtù: la forza mentale, il braccio, le gambe, i piedi, la testa, la visione più ampia, la pazienza, il coraggio, il disprezzo per la fatica, l’autostima, il rispetto per l’altro, ore e ore di allenamento sfiancante, salvo poi chiudere la seduta sempre con un sorriso e sempre con la voglia di tornare in campo il giorno dopo (altrimenti sono guai). E non solo bisogna averle: ma bisogna anche applicarle tutte insieme nello stesso momento per una durata imprecisata.
E per battere Goffin in finale bisogna che accada di nuovo: ossia è necessario che l’atleta sia convinto di non aver speso che poco. Spesso crederci vuol dire che è effettivamente così. Non crederci proverebbe che si sono consumate troppe energie nervose. Lo allena Gilles Cervara, lo sostiene sua moglie Daria. E’ uno semplice, ma è anche un ambizioso che non può più nascondersi, neppure a livello di jet set, visto che vive come Djokovic a Monte-Carlo. Quando però stacca, torna ragazzino e dopo il calice di champagne che serviva a confermare il dettato del proverbio delle sue parti (il corrispettivo del nostro “chi non risica non rosica”), sogna di starsene sbracato sul divano per 24 ore a guardare la tv, diciamo “Stranger Things”. Le cose strane, intanto, le hanno viste i suoi avversari: quella calma diabolica con la quale è riuscito a smontare persino la tradizionale piramide emotiva che Djokovic abitualmente usa per dare degna sepoltura agonistica a chi osa sfidarlo alla distanza. Attenti: l’accelerazione di Medvedev è qualcosa che va oltre. E in questo tennis maschile che non è mai somigliato tanto a quello femminile, per mancanza di padroni e alternanza di risultati, e per l’angosciante assommarsi di acciaccati, un minimo di continuità può diventare il fattore determinante anche allo Us Open, quindi al meglio dei cinque set. Se poi attaccata al braccio della “continuità” c’è scritto Medvedev, neppure i maratoneti, neppure Nadal può stare tranquillo.