L’ultima partita di Rafael Nadal al Roland Garros non poteva essere più intensa, più straziante, più commovente, più indimenticabile e soprattutto più bella di così. Ecco le emozioni raccontate da chi era sul Philippe Chatrier ad assistere alla ‘last dance’ del maiorchino contro un super Zverev
(da Parigi)
La mano, sul cuore, a salutare il pubblico sul Philippe Chatrier. La mano che parte dal cuore e si alza, solitaria, in cielo, libera dalle stampelle. Facciamo così: facciamo che è questa è la fotografia impressa nell’anima di una giornata inspiegabile a Parigi. E facciamo che sì, questa è davvero l’instantanea di un addio: non sfidiamo di nuovo il destino, non riproviamoci nel 2025, non roviniamo un momento perfetto.
L’ultima partita di Rafael Nadal al Roland Garros non poteva essere più intensa, più straziante, più commovente, più emozionante, più indimenticabile e soprattutto più bella di così. Perché, alla fine, l’aggettivo più semplice riassume tutto. Se il desiderio di Rafa era emozionare, la missione è stata compiuta: difficile immaginare una “last dance” più perfetta, una lunga “last dance” che in pratica – tolta la parentesi con Ruud, che in effetti comunque vale una finale Slam, ma giocata in trance – è ripartita da dove si era interrotta, bruscamente, nel 2022. Non ricorderemo molti punti di questo primo turno che non sarà mai un primo turno: ci verranno in mente le due volée di Rafa che sembravano uscite da un’altra epoca a metà secondo set e poi lo smash sul 4-3 nel terzo set che ci ha illuso ancora un po’. E poi, per onorare chi ha vinto, citeremo anche il game giocato da Sascha sul 5-4 nel secondo set, che di fatto ci ha ricordato che, tra mille paure, ci sarà un motivo per cui è il quarto miglior tennista al mondo, e il rovescio vincente a dargli il 5-3 nel terzo set, in pratica un match point anticipato.
Poi, però, ripenseremo a questa giornata non per tennis, ma per immagini. Sentiremo il silenzio assordante di una intera Parigi in processione fin dalle 10.00, ordinata e mesta come non avviene mai nelle metropoli. E capiremo in retrospettiva, che, in fondo, la partita era già scritta a priori. Rivivremo la camminata tra le vie del Roland Garros, incrociando bandiere spagnole, cappelli con il logo della Academy, magliette troppo grandi per contenere i trionfi di Rafa a Parigi. Chiuderemo gli occhi e ascolteremo, con le orecchie e con le gambe, il boato assordante del Philippe Chatrier per tutti i punti di Nadal, simile a un terremoto, una scossa che annunciava la fine di un’epoca tra la mestizia e la solennità, in un trionfo di ossimori che spiega un po’ la magia di questa giornata.
Guarderemo il cielo e ci ricorderemo che, come nel 2022, il campo era umido e le zolle di terra potenzialmente maledette, ma quel disgraziato di Sascha Zverev ha comunque giocato tutta la partita con i lacci delle scarpe che andavano un po’ dovunque. E poi ci verrà da pensare che anche le nuvole tifavano Rafa e piangevano per lui. Ci verrà quasi da raccontare a chi non era lì, nel tentativo di descrivere l’indescrivibile, che se esiste un attimo in cui il mondo si è fermato sono state esattamente le tre ore in cui Nadal ha provato per un’ultima volta a distruggere le leggi di spazio e tempo, ingannando il destino come nel 2022. Infine, piangeremo – e senza vergogna – ripensando al sole che spunta, dopo una giornata di pioggia, mentre ancora cadono le ultime gocce, proprio dopo l’ultimo punto giocato a Parigi.
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In inglese si dice che il dolore ha sempre uno scopo. Per quanto voglia sforzarsi di combatterlo, perché nessuno gli ridarà indietro sette mesi di carriera, il dolore di Zverev ha avuto uno scopo: permettergli di sconfiggere Nadal sul Philippe Chatrier non quando più ne aveva desiderio o bisogno, ma quando era destino che fosse così. Sascha è tedesco e quindi capirà cosa voglia dire “es muss sein”, ossia “deve essere così”. E anche il dolore di Nadal ha avuto uno scopo: due anni fa vinse il quattordicesimo Roland Garros, per poi lasciare, anche lui, Parigi in stampelle, con il piede troppo intorpidito per godersi il momento. Se avesse lasciato il tennis quel giorno, si sarebbe congedato da vincente. E invece Rafa ha avuto il coraggio di riscrivere la perfezione di un addio, aggiungendo la variabile di sconfitta e imperfezione che ai più superficiali sembrerà una macchia e che invece è il coronamento di una carriera di umiltà e sacrificio, che passa, a volte, anche dal fallimento e che si eleva a eterna proprio perché affronta con il sorriso non soltanto il successo, ma anche il fallimento.
La speranza, di Rafa, di Sascha e di tutti noi che amiamo il tennis, era di chiudere un cerchio. L’ultima di Nadal al Roland Garros è stata molto, ma molto di più. E facciamo così: fermiamoci anche noi, non aggiungiamo altre parole. Rovineremmo tutto.