Ciao, Adriano Panatta. Ciao, Valentino Rossi. Inizia un’altra storia. Quarantasette anni dopo l’ultima Davis, un predestinato stende il numero uno Djokovic annullandogli tre match point, prende l’Italia sulle spalle e la porta sul tetto del mondo, imponendo un modello di carattere ed eleganza, di leadership e di altruismo, che racconta il Paese migliore. Mezzo secolo dopo Giacomo Agostini, e due decenni dopo Valentino Rossi, un altro grande centauro doppia il successo nella MotoGp. La gomma che gli è passata a trecento all’ora sulle tibie, mentre era a terra dopo una caduta, non gli ha tolto un grammo di coraggio e di voglia di vincere. In attesa che Spalletti rimetta le ambizioni del calcio al posto giusto, ci pensano loro a testimoniare l’irraggiungibile unicità del genio italiano nello sport: Jannik Sinner con una scandalosa concentrazione, con cui governa l’armonia dei suoi muscoli e la immunizza da qualunque emozione negativa; Pecco Bagnaia con la tenacia, con cui addomestica il pericolo e ne fa un’energia vitale. Con loro inizia proprio un’altra storia.
Quella del tennis è la più universale. Perché non parla solo di sport e allo sport, ma battezza un modello. Di bellezza, intesa come proporzione aurea del corpo e simmetria del movimento. Di umiltà, intesa come coscienza dei propri limiti e rispetto dell’avversario, soprattutto del più debole, come il finalista australiano Alex De Minaur, a cui ieri Jannik regala perfino un applauso di complimenti, dopo essere stato scavalcato da un passante millimetrico. Di educazione, intesa come misura dei gesti e delle parole, mai eccedenti, mai fuori luogo, come quelle declinate sempre al plurale nelle interviste del dopo trionfo, quasi a voler celebrare – con il noi al posto dell’io – una vittoria corale. Perché a volte l’ipocrisia vale uno stile. E se pure tutti sanno che questa coppa torna a noi per la superiorità di uno solo, a tutti piace sentirla e viverla come il successo di una squadra, e di una generazione di coetanei. Come Matteo Arnaldi, il ventiduenne sanremese la cui impresa contro Alexei Popyrin apparecchia il tavolo alla scorpacciata di Sinner.
La fortuna di avere per compagno l’eroe altoatesino pretende che tutte le corde del corpo e dello spirito si flettano in una torsione della volontà. Così la forza di Sinner irradia il gruppo del suo coraggio e lo sprona a una storica vittoria. Questo è Jannik, il ragazzo d’oro che la gran parte degli italiani vorrebbe avere per figlio, per fratello o più semplicemente per amico, perché appare come la virtù in purezza o, se preferite, il prodigio di un processo alchemico in cui tutte le qualità che il Paese ha in potenza sono tradotte in realtà. Sinner è l’italiano che vorremmo essere e che non siamo mai stati e forse mai saremo. Forte e dolce, autorevole e sobrio, creativo e ordinato. Un leader che, quando si alza al cielo la coppa desiderata e attesa per quarantasette anni, la prende di lato come uno tra i tanti. Viene da chiedersi in quanti altri ambiti della nostra vita di comunità avremmo bisogno di una personalità così preziosa. Per ora accontentiamoci che grazie a lui, nello Sport, l’Italia s’è desta.
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