Il capoluogo campano ospitò con Caserta gli Europei del 1969. Gli azzurri giocarono tutte le gare al Mario Argento terminando sesti
il logo di Eurobasket 1969
Corsi e ricorsi storici. Il 5 ottobre 1969, in un PalArgento inaugurato appena qualche anno prima in occasione del Giochi del Mediterraneo del 1963 (e oggi ridotto a reperto archeologico), Italia e Spagna si affrontarono nella finale che valeva il quinto posto ai XVI Campionati europei di pallacanestro. Vinse la formazione iberica con il punteggio di 71-66, al cospetto di un’Italia demotivata per il mancato accesso alle semifinali. Inserita nel girone B, l’Italia finì infatti terza pagando a caro prezzo due sconfitte maturate con un solo punto di scarto contro Polonia prima (54-55) e Cecoslovacchia poi (62-63) e dovette dire addio ai sogni di medaglia.
Quell’amaro finale di una competizione che la città accolse in maniera calorosa e festante (spinta anche dalla passione per la palla a spicchi maturata grazie alle imprese della Partenope di Amedeo Salerno) resterà l’ultima esibizione della selezione maggiore azzurra nel capoluogo campano prima dell’atteso ritorno in programma giovedì 20 febbraio. Contro la Russia, nella gara d’apertura delle qualificazioni agli Europei 2021, scenderà in campo un’Italia rinnovata, con tanti volti nuovi e che guarda al futuro. Un po’ come accadde in quei giorni d’inizio autunno del 1969, quando sulla panchina della Nazionale Giancarlo Primo diede il cambio a Nello Paratore dopo 11 anni caratterizzati da alterne fortune, passando dallo storico quarto posto ai Giochi olimpici di Roma del 1960 alla cocente delusione dell’Olimpiade di Città del Messico del 1968, chiusa mestamente all’ottavo posto.
Il cambio della guida tecnica coincise con l’inserimento di atleti emergenti che reclamavano spazio e una svolta tattica improntata su aggressività difensiva e veloci ripartenze. Il gruppo di veterani, se così si possono definire ragazzi di età compresa tra i 24 e i 25 anni, continuava a costituire l’ossatura della squadra ed era formato da Massimo Cosmelli, play della Virtus Bologna, Massimo Masini, centro (o come si usava dire un tempo pivot) dell’Olimpia Milano, Gianluigi Jessi, play del Petrarca Padova diventato collezionista di giocattoli dopo aver abbandonato i campi da gioco, Carlo ‘Charlie’ Recalcati, bandiera della Pallacanestro Cantù in quegli anni e uno tra gli allenatori italiani più vincenti di sempre poi (l’argento olimpico con la Nazionale ad Atene nel 2004 è un ricordo che resterà indelebile nella memoria di molti) e il gigante di 210 cm della ‘All’Onestà’ Milano (seconda squadra cittadina) Enrico Bovone, spavaldo sotto le plance quanto fragile nella vita privata, morto suicida nel 2001 ad appena 55 anni.
Il nuovo selezionatore non volle (e non ne ebbe il tempo) sconvolgere le gerarchie, ma iniziò a dare spazio a quegli atleti che, nei 10 anni in cui Primo sedette sulla panchina azzurra, avrebbero condotto la squadra a due bronzi europei (Germania Ovest 1971 e Jugoslavia 1975) e altrettanti quarti posti ai Mondiali (Jugoslavia 1970 e Filippine 1978). Tra questi spiccano due giocatori dell’Ignis Varese, corazzata che proprio a partire da quella stagione avrebbe raggiunto per 10 anni di seguito la finale di Coppa dei Campioni, record tuttora ineguagliato: il play Aldo Ossola e il pivot o semplicemente la leggenda vivente del basket italiano Dino Meneghin (in prima squadra per la prima volta a 16 anni, nel 1966). Entrambi avevano esordito durante la gestione del professor Paratore, ma fu con Primo che entrarono in pianta stabile nell’organico azzurro.
Alla prima chiamata erano invece Pino Brumatti, guardia tiratrice del Simmenthal Milano, Renzo Bariviera, ala del Petrarca Padova che con un tiro allo scadere permise all’Italia di ottenere ai Mondiali di Lubiana del 1970 la prima storica vittoria al cospetto degli Stati Uniti (66-64), Marino Zanatta, ala della All’Onestà, Ivan Bisson, esterno della Snaidero Udine, e Paolo Bergonzoni, play della Fortitudo Bologna.
La rassegna continentale fu vinta dall’URSS che ebbe la meglio in finale sulla Jugoslavia (81-72) conquistando il settimo titolo consecutivo, ma fu proprio la squadra della nazione governata dal maresciallo Josip Broz Tito a infliggere ai sovietici, nel gruppo di qualificazione, la prima sconfitta dopo oltre 12 anni d’imbattibilità (73-61).