Di Redazione
Un allenatore moderno e molto preparato che sviluppa le sue tecniche in più ambiti: tecnico, atletico, personale, psicologico e motivazionale. Ma che soprattutto nel corso dei suoi anni di esperienza ha elaborato un’unica teoria funzionale: solo se ci si spinge al massimo, pretendendo il 100% prima da se stessi e poi dagli atleti, si ha la possibilità di ottenere qualche buon risultato.
Luke Reynolds, vice allenatore dei volleyRoos australiani, ha lavorato lo scorso anno in Germania con il Berlin Recycling: “È stata una grande esperienza, lavorando sia sulla Bundesliga che sulla Champions League ho avuto la possibilità di imparare molto. Ci si misura con un livello di competizione e di stress davvero notevole ma è quello con cui devono confrontarsi tutti i club europei più importanti. Mettersi in relazione con questo genere di aspettative è sicuramente fondamentale per un tecnico”.
Reynolds sottolinea l’aspetto in questi giorni più importante nell’allenamento: “La comunicazione è fondamentale, devi essere in grado di trasferire con efficacia qualsiasi concetto al tuo staff, ai fisioterapisti e ai dirigenti ma soprattutto alla squadra. Le idee possono diventare aspetti di gioco fondamentali in qualsiasi momento della partita. A volte da una statistica o da una sensazione costruita sulla lavagna devi essere in grado di spiegare efficacemente e in pochi secondi alla squadra quello che si deve dare sul campo. Sapere comunicare è sicuramente un aspetto fondamentale. Molti giocatori sono determinati e competitivi, a volte non c’è bisogno di lavorare sotto questo aspetto, spesso è la squadra che alza il livello di competitività dei singoli ma di tanto in tanto c’è bisogno di richiamare un solo atleta, in questo senso si lavora su un aspetto più psicologico e motivazionale che spesso diventa utilissimo. L’impegno è fondamentale: molti considerano solo le ore di allenamento come funzionali al lavoro di una squadra, non pensano che allenatori e terapisti dietro la squadra siano impegnati per un numero di giornate e di ore di gran lunga superiore. Il nostro lavoro inizia molto prima che la squadra entri in campo per la preparazione e finisce molto dopo che la squadra è sotto la doccia. Ho calcolato che se sei pronto a lavorare il doppio dei tuoi giocatori, e cioè intorno alle 80-90 ore alla settimana, il tuo impegno sarà probabilmente commisurato alle necessità del tuo club”.
Luke è alla ricerca di un nuovo club: “Le opzioni sono molte, può essere una squadra e in quel caso si diventa un lavoro globale per la prima squadra e anche per il settore giovanile ma un’altra opzione è lavorare come secondo, come sto facendo per Mark Lebedew nella squadra nazionale australiana. Negli ultimi tempi ho sviluppato anche un secondo aspetto molto interessante che è l’aiuto ai singoli atleti o alle squadre giovani che hanno bisogno di qualcosa di più di un mental coach”.
Come si costruisce la stagione di un allenatore? “Si parte d’accordo discutendo con la proprietà del club sui programmi e su quelli che sono i risultati che si vogliono ottenere sia da un punto di vista collettivo che individuale. Ci sono squadre che vogliono risultati concreti, altre che vogliono riavvicinare il pubblico, altre che vogliono inserire dei giovani nel nucleo della prima squadra, altre ancora che vogliono un salto di qualità. Questo genere di progetto viene condiviso con tutta la struttura tecnica e poi veicolato alla squadra: non esiste un metodo per ottenere risultati, ognuno deve trovare il proprio e molto spesso è necessario adattarsi a seconda della realtà con la quale ti misuri. L’adattamento è un altro aspetto sicuramente fondamentale nel lavoro del tecnico”.
Insomma, non esiste una formula magica: “No, decisamente non esiste. Se l’allenatore si spingerà avanti in tutti gli aspetti tecnici, atletici e motivazionali del suo aspetto, continuando a imparare e adattandosi a qualsiasi ambiente avrà semplicemente fatto la propria parte. La squadra dovrà riuscire a fare altrettanto… Non dimentichiamo un altro aspetto che nel mondo sportivo è sempre da inserire e da considerare con estrema concretezza. La fortuna…”
Spesso si diventa allenatori perché si è ex giocatori o perché si è grandissimi appassionati. Altri nascono tecnici grazie al DNA dell’insegnamento: “Penso che insegnare e divulgare sia sempre stato uno degli aspetti del mio lavoro che ho amato di più. Adoro crescere individualmente e come collettivo insieme ai miei giocatori, è bellissimo porsi un obiettivo e raggiungerlo tutti assieme. Lavorare con i giovani o nelle università può essere di soddisfazione anche maggiore che non allenare una prima squadra in un grande campionato. Questo è indubbiamente un mestiere meraviglioso che non ti consente mai di fermarsi, di copiare e incollare quello che hai già fatto altrove o che è stato già fatto da altri”.