Di Redazione
Raramente si lascia andare ma le sue immagini più polari sul web sono due: una di molti anni fa, quando l’Italia in Brasile vinse il Mondiale e l’altra più recente, quando Perugia conquistò il suo primo titolo nazionale. Qualche capello bianco in più, la differenza tra una divisa da gioco e la giacca dell’allenatore ma fondamentalmente le due immagini che lo ritraggono sono identiche. In piedi sulla sedia dell’arbitro con i pugni al cielo. Parliamo di Lorenzo Bernardi che ha rilasciato una bella intervista ricca di molti tratti umani rilasciata al quotidiano “La Nuova Venezia”.
Bernardi come ha scelto la pallavolo? “Per emulazione: ho imitato mio fratello maggiore che giocava già ed è E stato naturale seguirlo in questa disciplina. Quando ero ancora un ragazzino, frequentavo la prima media, fui selezionato per partecipare al trofeo delle Regioni con il Trentino. Quella fu una grande gratificazione per me, che mi diede la spinta per aumentare l’impegno nella pallavolo. Con la stessa selezione partecipai anche al torneo “Città di Trento” e per me era un motivo di orgoglio giocare nella mia città contro grandi avversari. Fu proprio qui che accadde un qualcosa di insolito, un episodio che a distanza di anni fa ancora sorridere molto”.
Eppure Bernardi fu scartato niente meno che dal professor Prandi… “Ancora oggi si mangia le mani. A quel torneo partecipavano grandi squadre: Modena, Padova, Parma e non solo. Il livello era alto, io ero stato segnalato come uno dei giovani più promettenti e Prandi mandò un osservatore apposta per me. Solo che questo osservatore diede un feedback negativo e alla fine andai a Padova. Approdai a Modena solamente un anno dopo”.
A Modena quattro scudetti di fila sotto l’avvento di Julio Velasco: “Un rapporto speciale. Velasco per me è stato determinante: ha avuto l’intuizione di spostarmi di ruolo, da palleggiatore a schiacciatore, e ha visto in me caratteristiche che nemmeno io all’inizio pensavo di avere. Ha creduto moltissimo in me, aiutandomi a crescere come uomo prima ancora che come giocatore”.
Si dice che arrivassi ad effettuare anche mille servizi al giorno per migliorare questo fondamentale. Quante ore lavorava in palestra Mister Century? “Tantissime… Ognuno di noi ha un talento. Magari ci si mette di più a scoprirlo, ma una volta che lo si individua bisogna allenarlo, approfondirlo, svilupparlo. Io sono sempre stato un grande agonista, amavo le sfide e mi sono allenato ogni giorno per essere il più bravo, ma senza mai anteporre gli interessi personali al bene della squadra. Ero sempre in gara con me stesso».
Da Modena a Treviso, altri successi, il titolo di Cavaliere della Repubblica e Mister Secolo assieme a Kiraly: “È stato tutto molto gratificante per me e per la mia famiglia. Ma il titolo di Mister Secolo mi ha portato anche tante invidie e pochi vantaggi. Girava voce che sarebbe stato meglio non arrivasse in Italia, ma al di là di campanilismi internazionali per me era il raggiungimento di quello per cui avevo sempre lottato. Non sopportavo la superficialità, guai se un compagno o un allenatore non davano il massimo in allenamento o in partita su ogni palla, in ogni azione”.
A Treviso la sua maglia numero 9 è ritirata da anni e penzola dal soffitto insieme ai festoni dei trofei. Ma la separazione con la Sisley è stata difficile: “Vivo a Treviso e anche mio figlio è nato qui. Ho dato tantissimo alla Sisley e ricevuto altrettanto in 12 stagioni. Nell’ultima ero stato messo fuori rosa per ragioni che non ho mai compreso. Dovevo essere mandato via, ma i contorni di quella vicenda non sono mai stati definiti. A distanza di anni fa ancora male, come ha fatto male veder scomparire una realtà che era diventata un modello anche in Europa. Comunque, dopo l’addio a Treviso, mi sono rimboccato le maniche e sono andato avanti per la mia strada”.
Oggi dopo una carriera che si è allungata all’alba dei 40 anni è allenatore… “Un passaggio naturale. Ho sempre pensato che, una volta smesso di giocare, avrei dovuto trovare un modo di trasmettere agli altri quello che ero stato io. Mi considero un uomo di campo”.
Allenare magari per mettersi finalmente al collo l’oro olimpico che sfuggì ad Atlanta? “Sono un fatalista e credo nel destino. Da giocatore ho sempre dato il massimo e sto continuando anche da allenatore. Per arrivare ad una nazionale il percorso non è semplice. L’oro olimpico è certamente un sogno, che cercherò di realizzare se il destino lo vorrà”.
(Fonte: La Nuova Venezia)