A Toronto è stata introdotta la regola dello “shot clock”, rappresentato da un tabellone luminoso che segna un countdown di 25 secondi fra un punto e l’altro, con il conto alla rovescia che comincia quando l’arbitro annuncia il punteggio e termina quando il giocatore alla battuta inizia il movimento al servizio. Una regola tutto sommato ben recepita durante il Masters 1000 canadese che potrebbe però essere solo la prima di una riforma generale del tennis attuale che ha un solo obiettivo: velocizzare le partite.
Una novità che ha generato il solito dibattito fra i giocatori, con pareri discordanti anche fra i top player: per alcuni è fondamentale stare al passo con i tempi e con la necessità di un tennis più fruibile, più rapido e fluido, per altri tentare di rendere il tutto più veloce uccide proprio l’essenza del tennis stesso. Sebbene a Toronto lo “shot clock” sia stato ben gestito e i giocatori non l’abbiano particolarmente sofferto, non capisco questa esigenza spesso simile a un’ossessione di cambiare l’essenza di uno sport che sa regalare, anche grazie alla sua durata, scontri epici e spettacolo. L’esigenza sembra essere quella di velocizzare il tutto per arginare l’emorragia di pubblico dei più giovani: giocare sempre 2 set su 3, ad esempio, sarebbe però sinonimo di grande tennis? Dove finirebbero le strategie, studiare l’avversario, modificare in corsa le tattiche di gioco per sovvertire le sorti di un match? Capisco il circuito che ha bisogno di stare al passo coi tempi, ma non comprendo chi pensa di snaturare addirittura Slam e Coppa Davis, appuntamenti che per me sono sinonimo di cinque set e di tradizione in cui novità di questo tipo c’entrano poco o nulla. Purtroppo credo però che le sorti della Davis siano in tal senso già segnate…
Lo “shot clock” potrebbe essere il primo di cambiamenti introdotti progressivamente: mi domando se il tennis abbia bisogno di set brevi, di un solo servizio a disposizione, di abolire il let, di eliminare i vantaggi, nel tentativo di plasmare gli eventi sportivi alle esigenze di palinsesti e produzioni televisive. Equilibri rischiosi e complicati da ottenere ma non posso non pensare che quando entrano in gioco certe logiche si perde proprio il messaggio del tennis, la sua poesia, il racconto di un mondo a-temporale in cui si sa l’inizio di un match ma di certo non quello della sua conclusione.
Alessandro Orecchio